Zero su Netflix, la recensione in anteprima: i mille significati di una serie semplice ma importantissima (e scialla)
Tra generale e particolare, otto episodi con cui finalmente Netflix Italia offre al pubblico una storia che può davvero arrivare a tutti
Fonte: Ufficio Stampa Netflix
Finalmente: è la prima parola che viene in mente nello scrivere la recensione degli gli otto episodi di Zero, la nuova produzione originale italiana di Netflix disponibile da domani, mercoledì 21 aprile 2021, in tutti e 190 i Paesi in cui il servizio è disponibile.
Scriviamo “finalmente” perché fino ad oggi Netflix Italia aveva faticato a proporre una serialità che fosse davvero all’altezza dei racconti che troviamo in catalogo e che provengono da qualsiasi parte del mondo. Suburra-La serie era ambiziosa, certo, ma la freddezza del racconto aveva privato la visione di quell’empatia necessaria per avvicinarla davvero al pubblico. SanPa, ad inizio anno, è stato il punto di svolta, vero, ma ricordiamoci che quello è un documentario.
Zero, invece, è una serie tv semplice, immediata, divertente ed emozionante. Un vero “nuovo inizio” per Netflix Italia, a partire da un racconto che mette finalmente al centro gli italiani (e non “nuovi italiani”, per favore) di seconda generazione. I loro genitori sono arrivati dall’estero, ma loro no: sono italiani a tutti gli effetti, ma spesso la tv se ne dimentica.
L’invisibilità come superpotere e metafora
Se ne dimentica, trattando un’intera generazione quasi come se non esistesse, come se fosse invisibile. La scelta di Antonio Dikele Distefano (che ha contribuito alla sceneggiatura e dal cui libro “Non ho mai avuto la mia età”, edito da Mondadori ed anche in e-book, è tratta la serie) di affidare al protagonista Omar (Giuseppe Dave Seke) proprio il potere invisibilità non è casuale.
Zero parla ad un pubblico di giovanissimi (lo dimostra anche l’attenta colonna sonora), ma in realtà punta il dito agli spettatori adulti: “Ci siamo anche noi”, sembrano dire i membri della crew protagonista della serie, che di restare passivi non ci pensano proprio. L’invisibilità di Omar/Zero diventa metafora di una generazione non che cerca la propria voce, ma che quella voce sa di averla e vuole che si senta.
Ma questo superpotere, in realtà, ben si presta ad altre letture volute da Menotti, creatore della serie: dall’individuo si passa al gruppo ed al senso di comunità. Un senso che Omar non sente su ad inizio racconto, ma che nel corso degli episodi diventa il motore che lo fa muovere e diventare sempre più coraggioso. Non a caso, è proprio lui che durante uno dei vari voice over che accompagnano le puntate dice quello che è uno dei punti chiave della serie: “Se ti prendi cura del mondo, il mondo si prenderà cura di te”.
Zero, non sottovalutare la velocità
A rendere la visione di Zero fresca e divertente non sono solo la trama ed i suoi personaggi (che, a dirla tutta, per gli appassionati di superhero series non rappresenteranno chissà quale novità: i canoni del genere sono rispettati in tutto e per tutto), ma anche il formato scelto.
La durata degli otto episodi della prima stagione è infatti inferiore ai trenta minuti: una scelta insolita, per Netflix Italia, che ha sempre lavorato invece su prodotti con episodi da 50 minuti o un’ora. Eppure, è una scelta che funziona, perché alleggerisce la trama da tutte quelle eventuali trovate che avrebbero allungato la trama e fatto perdere la vivacità delle scene girate.
E poi, proprio come i giovani protagonisti, anche il principale pubblico di riferimento di Zero predilige le storie raccontate senza troppi fronzoli. Inutile, quindi, perdersi in sottotrame, se la trama principale scorre veloce: ed il ritmo ringrazia.
La seconda generazione di un’Italia che finalmente esiste in tv
In conferenza stampa Dikele è stato chiaro: la speranza è che Zero possa servire a smuovere produttori, autori e registi nel raccontare sempre più storie che mettano al centro gli italiani di seconda generazione, giovanissimi legati ad un passato dalle proprie famiglie ma rivolti anche ad un futuro che li vede protagonisti.
In questo, Zero diventa davvero un potenziale inizio per la serialità italiana: certo, restiamo su una piattaforma streaming che si rivolge principalmente ad una fascia di pubblico differente da quella più vicina alla tv generalista, ma Netflix ha dimostrato già in passato di avere una forza capace di trainare nuovi linguaggi anche altrove.
Sicuramente, come detto sopra, resta il fatto che Zero si propone in chiave totalmente inedita per quanto riguarda la produzione italiana di Netflix. Meno seriosa, più scialla; meno costruita, più sincera. Nel mezzo, un buon lavoro di messa in scena che traduce sullo schermo un’amicizia nata sul set tra gli attori e che traspare in tutto il suo candore. Il candore di giovani interpreti, chi con nessuna esperienza sul set, chi un po’ più pratico, che hanno deciso di imbarcarsi in un’avventura che sa di poco, ma che ha un sacco di significati.
Da temi più generici ed attuali come l’inclusione, la difesa delle proprie radici ed il fenomeno della gentrificazione, Zero passa allo specifico del disagio e dell’emarginazione, a quella voglia di essere davvero invisibili che prima o poi ha attraversato ognuno di noi.
Generale e particolare, universale e locale: queste le solide basi da cui parte il viaggio di Omar/Zero e della sua banda di amici. Un viaggio che ha l’impressione di poter durare anche più di una stagione e che solo il successo ce lo dirà. E noi speriamo che Zero torni a salvarci (ed a salvare Netflix) un’altra volta.