Vermicino, l’abisso della tv è in quel microfono nel pozzo
Non sono bastati 40 anni a far capire all’informazione (e alla Rai) cosa ha fatto a Vermicino, anzi oggi parla di “sperimentazione”.
La tragedia di Vermicino è certo nella morte di un bambino di sei anni, Alfredino Rampi, dopo tre giorni di agonia in un cubicolo di 30 cm profondo oltre 60 metri. Ma non solo. Per la televisione italiana – e per l’informazione in generale – Vermicino è stata una tragedia consumatasi ai bordi di un pozzo trasformato in un circo. Un circo di cui è stata complice e che ha segnato una linea tra l’informazione del ‘prima’, in cui la cronaca era mediata dal racconto del giornalista e un ‘dopo’ fatto di telecamere accese e di microfoni aperti per occupare il palinsesto. Il confine tra il ‘prima’ e il ‘dopo’ è il filo di quel microfono calato nel pozzo: il microfono doveva servire a mettere in contatto il bambino con i soccorritori, ma fu usato anche per far sentire in diretta tv la voce metallica, lontana, affaticata, terrorizzata di un bambino che chiama disperato la mamma dopo ore passate in un buco nero e fangoso. In quel microfono acceso e calato nel pozzo di Vermicino c’è tutto l’abisso in cui l’informazione televisiva è precipitata nelle 36 ore di diretta Rai. Intorno a quel filo si è creato il nodo, mai davvero risolto, della copertura televisiva no-stop e a staffetta tra le tre reti Rai nata per raccontare un salvataggio – dicunt – e finita mostrando il peggio del Paese – dalle massime cariche dello Stato ai ‘poteri’ locali che discussero sulle competenze territoriali, dall’approssimazione della gestione delle operazioni alla partecipazione morbosa delle persone – con il giornalismo che rinunciò in toto alla sua funzione di mediazione informativa, sociale e culturale.
Quel peggio in tv non ha ancora visto la fine. Di quell’abisso, paradossalmente, non abbiamo ancora toccato il fondo. Pensavamo di averlo fatto proprio con Alfredino, ma il ‘futuro’ ci ha dato diverse occasioni per ricrederci.
Si dice che le tante ore di diretta da Vermicino abbiano segnato l’inizio della “Tv del dolore”: lo dice chiaramente Piero Badaloni, il primo conduttore dell’edizione straordinaria del Tg1 voluta dall’allora direttore Emilio Fede, nel ricordo rilasciato a TvBlog.
“Da allora infatti, molti programmi televisivi popolari della mattina e del pomeriggio cominciarono a cercare e a raccontare storie di dolore, convinti che solo in quel modo si potesse attirare l’interesse del pubblico e aumentare l’ascolto. Nacque la cosiddetta ”TV del dolore”. Un modo per stimolare solo curiosità morbosa, non certo partecipazione alle sfortune degli altri, come si voleva far credere”
ribadisce 40 anni dopo il giornalista.
C’è chi, in maniera più scientifica, vede in Vermicino la nascita del ‘dolorismo’ e del ‘dolorrore’ come forme di racconto tipiche dell’infotainment, come la prof.ssa Anna Bisogno che alla Tv Invadente e al reality del dolore ha dedicato uno studio e che ricorda come “la tragedia di Vermicino non è servita a riflettere sull’opportunità di trasmettere casi dolorosi in tv, o meglio, su come trasmetterli, ma è servita solo a sdoganare questo nuovo genere di spettacolo basato sulla sofferenza“.
Lo stesso Badaloni – grande protagonista peraltro delle varie trasmissioni Rai per il quarantennale – ricorda come la spettacolarizzazione del dolore attraversò più volte quella lunghissima diretta, che la Rai decise di non stoppare viste le migliaia di telefonate arrivate ai centralini perché si continuasse a tenere accese le telecamere su Vermicino. Un’attenzione che si tradusse in 21 (secondo alcuni 25, altri parlano di 28) milioni di telespettatori.
Due i momenti che Badaloni ricorda come fortemente simbolici: il primo è proprio quel microfono nel pozzo.
“Qualcuno, a mio giudizio sbagliando, aveva fatto sentire la voce disperata del bambino, raccolta da un microfono calato nel pozzo, e quella della mamma che cercava di calmarlo. “
ha dichiarato Badaloni. Quella voce è stata poi inserita in una puntata de La Storia Siamo Noi, ma i genitori hanno chiesto che non fosse utilizzata mai più.
L’altro momento, Badaloni lo ha ricordato in un’intervista concessa a Leggo, nella quale ricorda che
“la signora Rampi presa per una spalla e fatta voltare bruscamente ‘a favore di telecamera’ mentre stava chiedendo informazioni a un vigile del fuoco in un momento cruciale delle operazioni di salvataggio, ovvero la perforazione del tunnel parallelo al pozzo. […] Quella è stata una spettacolarizzazione del dolore. […] Vermicino incise profondamente sulla storia della televisione e del Paese. Dovrebbe ricordarci che, come giornalisti, abbiamo un codice etico e delle responsabilità. […] Anche con la tragedia del Mottarone c’è il tentativo di mantenere alto il livello di attenzione mediatica attraverso la curiosità di conoscere dettagli che non sono così rilevanti: è più importante l’inchiesta, non sapere quali sono state le prime parole del bimbo, unico sopravvissuto, al suo risveglio in ospedale. C’è ancora la voglia, da parte di qualcuno, di inseguire il sensazionalismo. Penso che gli italiani siano abbastanza maturi da capire qual è il limite che non va superato: spesso sono i giornalisti a farlo”.
Vermicino, quindi, non ha rappresentato uno spartiacque ‘positivo’ per l’informazione italiana: non ha rappresentato la consapevolezza del ‘mai più’, ma è stato un punto di non ritorno. Vermicino non ha insegnato nulla, ma ha acuito una modalità di racconto giornalistico che ha perso sempre più i contatti con la funzione di mediazione del giornalismo stesso.
40 anni dopo, dunque, Vermicino non ha insegnato nulla alla tv. Anzi. Verrebbe da dire che la tv continua a non capire cosa sia successo davvero davanti a quel pozzo, o finge di non capirlo. Non parla mai, ad esempio, della pressione psicologica che quella diretta determinò nei soccorritori, più volte ricordata da chi in quel pozzo ci si è calato per salvare il bambino. E lo dimostra, ancora 40 anni dopo, un passaggio della nota stampa rilasciata dalla Rai per presentare la sua programmazione speciale in memoria di Alfredino:
“A quarant’anni dal tragico epilogo di una vicenda che rese evidente l’impotenza dei soccorsi, nonostante i mezzi tecnici e il grande cuore dei volontari, la Rai – che sperimentò in quell’occasione un’inedita, infinita diretta sulle tre Reti – propone una serie di iniziative editoriali a partire dall’informazione che ne fu protagonista e testimone“.
“Sperimentazione“, “inedita diretta“, “informazione protagonista“: il peggio di quelle ore diventa occasione per un’autocelebrazione che viene promossa come ‘sperimentazione’ linguistica e che rivendica il protagonismo dell’informazione, là dove avrebbe dovuto essere solo racconto e servizio. Il peggio non ha ancora fine. E in 40 anni non abbiamo imparato niente. Eppure da quel pozzo non è più uscito nessuno. Nessuno come prima.