Veline o Velone, che differenza fa? E’ la società dello spettacolo. Incriticabile.
Non lo so, se mi intristisce di più Veline, o Velone. Sì, certo, direte voi: dovresti esserci abituato, sono cinque anni e più che scrivi su questo blog, e da chissà quanti guardi la tv, è inutile che ora tu te ne esca con questa sparata. Sparata che avrà i soliti effetti: quelli pro che
Non lo so, se mi intristisce di più Veline, o Velone. Sì, certo, direte voi: dovresti esserci abituato, sono cinque anni e più che scrivi su questo blog, e da chissà quanti guardi la tv, è inutile che ora tu te ne esca con questa sparata. Sparata che avrà i soliti effetti: quelli pro che dicono “ecco, sei il solito contro”. Quelli contro che esultano ma dicono: “ieri avete seguito il programma e ne parlate”. Magari, quelli che ci lavorano che se la prendono e quelli che non ci lavorano che gioiscono, senza pensare che questo è il parere del sottoscritto, e come tale si può esprimere, e ascrivere alla sfera delle opinabili opinioni.
Il fatto è che non c’è nulla di male, nel dire che un qualcosa intristisce, se lo si va a spiegare. E spiegarlo è facile e va al di là della professionalità di chi lavora a questo o quel programma, e con la doverosa premessa: Velone funzionerà, questo è quasi certo. Come ha già funzionato, come ha funzionato Veline. Perché si gira l’Italia d’estate in piazza. Perché è nazionalpopolare. Perché al posto delle bellone che mostrano tacchi e seni e cosce ci sono le signore, che tutto sommato fanno tenerezza, fanno ridere e fanno anche pensare: “arrivarci, a quell’età lì, in quel modo lì, con quella verve, signora mia”. Perché c’è la gente che applaude. Perché verrà visto. Perché dopo l’intuizione di Maria De Filippi, la vecchiaia in tv – ma solo quella dei vecchi-gggiovani, i vecchi non noiosi, non lenti, non vecchi, insomma, quelli che si deformano per fare i giovani ma non quelli naturalmente deformati per l’età, come se invecchiare fosse un peccato mortale da esorcizzare – tira. E via dicendo.
Ma cerchiamo di alzare un po’ il livello. Velone, come Veline, come il filone di quella tv che non cambia mai, in Mediaset come in RAI come in molte altre realtà – da qui, soprattutto, le ragioni della mia tristezza – sono tutti pezzi di quella società dello spettacolo che Guy Debord racconta molto bene in un libro che farebbe bene ai neuroni dello spettatore medio – di sicuro ha fatto bene ai miei, in passato e rileggendolo oggi -. Un libro del 1967, che si trova addirittura online senza copyright, da cui prendo a prestito uno stralcio dal primo capitolo:
12. Lo spettacolo si presenta come enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Esso non dice niente di più che “ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”. L’attitudine che esige per principio è questa accettazione passiva che esso di fatto ha già ottenuto attraverso il suo modo di apparire insindacabile, con il suo monopolio dell’apparenza.
In questa frase è contenuta l’essenza stessa di ciò che rende questa critica futile e al tempo stesso necessaria. Ed è contenuta l’essenza stessa della televisione incriticabile.
Velone va bene, perché è spettacolo e mette in scena quella stessa vita che non vede l’ora di finire davanti a una telecamera per raccontarsi come spettacolo, e quindi diventare, istantaneamente, qualcosa di buono o di condivisibile senz’ombra di dubbio.
Eppure, a me fa tristezza. Perché la vita che pretende di diventare spettacolo è triste e, molto spesso, inutile ai fini dell’intrattenimento – grazie al cielo, la vita non è sempre così interessante come si vorrebbe e ha anche dei tempi morti – e genera quell’effetto non-voglio-vedere-sono-in-imbarazzo.
Ecco, se la leggete così, forse apparirà non già una critica a Velone (o a Veline, o altro), ma alla società dello spettacolo tutta.
Che poi, se il livello medio fosse più alto, ci starebbe anche Velone, per carità. Il fatto è che, personalmente, non vedo la luce in fondo al tunnel.