Con una settimana di anticipo rispetto a quanto previsto, oggi la televisione italiana – pubblica, ma in parte anche privata – riapre dopo le ferie estive. Il merito, si fa per dire, è, come noto, delle elezioni politiche in programma il prossimo 25 settembre. Un ritorno anticipato alle urne che ha costretto i dirigenti della tv a rivoluzionare i palinsesti, soprattutto per quanto concerne i programmi di approfondimento politico, chiamati a raccontare la campagna elettorale (allettante, vero?).
L’occasione è ghiotta per mettere nero su bianco qualche auspicio, perché, si sa, la speranza è l’ultima a morire.
E così immaginiamoci d’un tratto la televisione italiana che si sveglia senza programmi dalla durata monstre, utili a coprire a basso costo ore e ore di palinsesto con una unica produzione, ma praticamente impossibili da seguire interamente e di fila (a meno che nel frattempo non ti sia addormentato).
Spariranno anche le finte dirette – sì, nel 2022 basta – con il conduttore che ostenta una falsa contemporaneità con il pubblico che assiste da casa allo spettacolo o che addirittura si auto-lancia, simulando – con tanto di continuità di outfit – spostamenti lampo da uno studio televisivo all’altro.
Tramonteranno le interviste-ipocrisia, dove innanzitutto mancano le domande (e vabbè, non si può avere tutto dalla vita), ma soprattutto il clima è di finta cordialità – “tesoro“, “amore mio“, “carissimo amico“, ché poi alla fine l’hai visto una volta in vita e comunque l’intervista è promozionale. Al contempo diremo addio alle solite compagnie di giro, cioè all’idea che nel mio programma invito praticamente solo le persone che frequento nella vita reale, perché forse alla fine telefonarsi è troppo impegnativo.
Quindi vincerà la contaminazione, per cui nei talk show non ruoteranno sempre e solo le uniche facce che funzionano, ma si proverà ad aprire a chi, pur avendo qualcosa da dire o da rappresentare, non è abitudinario del piccolo schermo.
Infine, finalmente autori e conduttori ammetteranno pubblicamente senza paura alcuna che la priorità ha un nome: Auditel. Vivaddio! E allora non dovranno sforzarsi nella creazione di alibi – “l’ho invitato perché crediamo nel pluralismo, tutte le voci devono trovare spazio in tv“, “ci siamo occupati di questa drammatica vicenda perché vogliamo fare servizio pubblico“, “ne parlano tutti i quotidiani” – per giustificare scelte editoriali motivate da una sola cosa: la ricerca degli ascolti.