Che bella la tv laica
Aborto, immigrazione, violenza, riscatto: la forza narrativa de Le Ragazze – e ci metto anche Un Giorno in Pretura – è quella di raccontare storie vere, senza slogan e ipocrisie. Quella ‘tv verità’ che neanche più l’informazione garantisce
“I nostri professori, se posso dirlo, erano dalla parte delle donne […] Li sentivo parlare con infinito affetto delle donne che arrivavano in Pronto Soccorso danneggiate durante un aborto clandestino […] Quelli ‘buoni’ tra quelli che facevano aborti clandestini le accompagnavano fino al Pronto Soccorso, aprivano lo sportello, le spingevano fuori e poi andavano via sgommando. E queste donne si avvicinavano al Pronto Soccorso barcollando perché avevano l’intestino che scendeva dalla vagina”
Il titolo è impegnativo, lo so, ma non sono riuscita a trovare un termine più efficace per esprimere le riflessioni raccolte in questo pezzo che nasce dopo aver visto la prima puntata de Le Ragazze e che poi ha trovato un ulteriore spunto nel recupero della puntata di Un Giorno in Pretura dedicata alla morte di Cranio Randagio. Nasce – lo anticipo – esattamente dal passaggio che trovate in apertura, tratto dal racconto di Elisabetta Canitano, una Ragazza degli anni ’70, ginecologa, impegnata nei Consultori, nell’educazione al sesso consapevole e nella difesa della Legge 194.
La laicità de Le Ragazze
Che Le Ragazze sia uno dei programmi più belli offerti dalla tv italiana lo diciamo da anni: i vari tentativi di rendere il format più da ‘prima serata’ (come l’incontro delle Ragazze in studio o la presenza dell’uomo commentatore, sperimentati e poi abbandonati) hanno (giustamente) ceduto il passo alle sole storie delle donne protagoniste. Storie stupende, per tanti motivi diversissime, che raccontano l’Italia delle commesse anni ’50 e delle ballerine di rivista, delle scienziate e delle contadine, del Conformismo e della Contestazione: un’immersione nella nostra vita, in qualsiasi epoca si è sia vissuto, al di là del genere, delle esperienze personali. Un programma che è una coccola di scrittura e di confezione, con una colonna sonora che non lascia mai nulla al caso e con un’attenzione all’ascolto dirompente. E che non ha paura.
Qui c’è quella che intendo ‘laicità‘: l’ascolto e il racconto senza giudizio. La libertà di parlare di quel che il contesto vorrebbe tacere. Una dote rara in tv perché è ormai una dote rara al di fuori della tv.
È questo un tratto che attraversa l’intero programma, anzi è la cifra stessa della sua scrittura, ma ci sono storie in cui deflagra e travolge tutto. La cosa magnifica è che lo fa praticamente ‘sottotraccia’: basta una frase, una intonazione, un’espressione, uno sguardo lasciato nel montaggio, come quella carico di una vita intera con cui si chiude il racconto di Marina Gamberini dopo aver attraversato ancora una volta il dolore della sua sopravvivenza alla Strage di Bologna. Una sequenza commovente. Un compendio della delicatezza, della cura, della forza di questo programma.
La crudezza è una boccata d’aria
Se è da sempre è così, perché scriverne ora? Lo avevo anticipato in apertura: perché sono rimasta inchiodata alle parole di Elisabetta Canitano e al suo modo di parlare (laico, per l’appunto), di sé, della sua vita, della sua professione, del suo quarantennale quotidiano, fatto anche di donne passate nelle mani delle cosiddette ‘mammane’.
La sua testimonianza asciutta, circostanziata, legata alla verità dell’aborto nella sua attualità polverizza qualsivoglia arroganza propagandistica. Ancor di più perché caduta a poche ore dalle parole di Papa Francesco che ha definito ‘sicari’ i medici che applicano in Italia una legge dello Stato. La crudezza delle parole di Elisabetta Canitano è stata una boccata d’aria. Potrebbe sembrare una contraddizione, ma è stato bello ascoltare fatti e non opinioni egoriferite dettate dall’interesse di parte come accade nei ‘cosiddetti’ talk show.
“Un nostro docente a lezione ci disse che ci sono dei momenti della vita in cui una donna ha solo il ginecologo per aiutarle…”
racconta la Canitano ricordando i suoi tempi da studentessa. E non c’è frase più vera di questa.
“I miei maestri ricucivano gli imeni: quando una donna che aveva avuto rapporti si doveva sposare, le si mettevano due punti in modo che sanguinasse la prima notte di nozze”
è un compendio dell’ipocrisia sociale che condanna le donne in Italia, come il passaggio che segue:
“Tra le donne che ci colpiscono di più ci sono le donne religiose: le donne cattoliche abortiscono come tutte le altre, ma hanno più sensi di colpa, più dolore…”
Il reale vs “l’ideale” trova spazio in altri ricordi della specializzazione:
“Non c’era l’ecografia, no, e quindi i nostri direttori visitavano le donne e dicevano “Mamma mia, quanto perde! Portala di là che facciamo il raschiamento. Ci domandavamo se l’embrione era vivo? No, non si ascoltava il battito. Si valutava la condizione della madre. Era lei quella importante. Tutte queste chiacchiere sullo ‘scegliere’ tra la madre e il bambini io non le ho mai sentite fare dai nostri direttori: se vedevano una donna che stava male si muovevano immediatamente. […] Non voglio dire che l’aborto fosse santificato, ma che le donne ne avessero bisogno era chiaro a tutti. Era la Sapienza, non era una università religiosa…”.
Una intervista da far vedere nelle scuole, dalle Medie in poi.
La concretezza del quotidiano
Poche ore dopo mi sono imbattuta nella puntata di Un giorno in Pretura dedicata al caso di Cranio Randagio. Una puntata non diversa dalle altre, ma in cui c’è stata un’altra testimonianza – in questo caso nel senso stretto del termine – che mi ha colpito. È stato un passaggio del racconto della madre del rapper, all’anagrafe Vittorio Andrei, morto di overdose a 21 anni, nel 2016.
Le viene chiesto se si fosse accorta della dipendenza del figlio; la giudice prova a trovare nel lavoro della donna la ‘causa’ della sua ‘disattenzione’, con quello che sembra un tentativo di ‘darle una mano’, quasi a volerla ‘scaricare’ da quella colpa. “Come è possibile che una mamma non si accorga di un fatto tanto importante?” è la domanda che la giudice pone e alla quale lei stessa risponde chiamando in causa le poche ore trascorse dalla madre, causa necessità lavorative, col figlio.
“No, non te ne accorgi fino a un certo punto: nel momento in cui Vittorio ha iniziato a mostrare segni di nervosismo, e quindi io mi sono allertata, non ho avuto il tempo di fare nulla! Io non sono riuscita a salvare mio marito che si è ammazzato, io non sono riuscita a salvare mio figlio che si è strafatto, però ragazzi la vita è di ognuno… perché uno può tenere e tenere… sa quanti anni ho ‘tenuto’ mio marito? 17! Tieni, tieni, tieni e quando molli… fine. La responsabilità della nostra vita è individuale! Non posso accollarmi le colpe di non far morire i miei figli… perché dopo aver lavorato 8 ore in Rai vado a fare la cameriera in un ristorante per pagare l’affitto e avere qualcosa da mangiare perché non ho nessuno, e quindi non mi accorgo di mio figlio! NO! Questo non mi sta bene! Mi sta bene che mi diciate ‘Guardi, suo figlio da sei mesi faceva cose terribili!’ e sì non me ne sono accorta io, non se n’è accorto DJ Squarta, non se n’è accorta la fidanzata, non se n’è accorto nessuno perché la sostanza ha un percorso…”
In tribunale, il luogo del giudizio per antonomasia, le parole di Carlotta Mattiello, la madre di Vittorio, è un richiamo laico alla responsabilità individuale, alla liberazione della ‘madre’ dal senso di colpa a prescindere. Un approccio laico, che torna ad avere a che fare con la rappresentazione sociale della donna. Il pezzo inizia intorno al minuto 41 (potete recuperarlo su RaiPlay) ed è un altro estratto da mettere in una ipotetica enciclopedia per le scuole.
Sulla stessa scia si inserisce la scelta di Un giorno in Pretura di portare sullo schermo il processo sul naufragio dell’11 ottobre 2013 in cui morirono 268 migranti, tra cui una sessantina di bambini: la puntata è andata in onda sabato 5 ottobre, in avvicinamento alla Giornata Nazionale in memoria delle vittime dell’immigrazione. Imputati nel processo il Comandante Manna della Guardia Costiera e il Comandante Luca Licciardi della Marina Militare, accusati di omissione di atti d’ufficio e omicidio colposo plurimo. Non l’ho ancora vista, ma il solo fatto di averla ripresa e trasmessa in questo particolare momento storico-politico ha il sapore della tv laica di cui abbiamo bisogno. Residui di quella ‘tv verità’, tanto cara ad Angelo Guglielmi, che si è andata sfaldando negli anni in alcuni dei suoi programmi di punta, ma che ‘resiste’ nelle pieghe di un palinsesto lontano dal clamore social… E che il più delle volte non si trova nei programmi di informazione.