The Wire
Il post che segue è stato scritto da MarcusDaly ed è una lunga recensione di The Wire, serie americana di cui in Italia ben pochi si sono occupati e di cui nessun altro ha scritto in maniera così approfondita e puntuale. Per questo, pubblichiamo volentieri, augurandoci che faccia piacere agli appassionati e che possa portare
Il post che segue è stato scritto da MarcusDaly ed è una lunga recensione di The Wire, serie americana di cui in Italia ben pochi si sono occupati e di cui nessun altro ha scritto in maniera così approfondita e puntuale. Per questo, pubblichiamo volentieri, augurandoci che faccia piacere agli appassionati e che possa portare proseliti e fan e questa serie. Malaparte
Avvertenza: post lunghissimo e nerd, per veri teledipendenti.
HBO, la più antica e prestigiosa tv via cavo americana, è, a giudizio unanime della critica internazionale, la rete che più ha contribuito, dalla fine degli anni ’90 ad oggi, a dare alle serie televisive quel prestigio e quel valore culturale che prima erano appannaggio solo del cinema.
Ogni volta che si parla del fenomeno delle serie tv, della loro finezza di scrittura, capacità di approfondimento tematico, introspezione psicologica, raffinata costruzione narrativa, disegno dei personaggi, si finisce per citare immancabilmente quella manciata di show che hanno fatto la differenza e la fortuna di questa rete: OZ, Six feet under, Sopranos, Sex and the city. Tutte prodotte e andate in onda, quasi contemporaneamente, tra il 1997 e il 2001.
Eppure, c’è una serie che meriterebbe di essere aggiunta a quest’olimpo internazionalmente riconosciuto. Una serie che in America è ben nota e osannata quanto quelle appena citate, ma è inspiegabilmente molto meno conosciuta nel resto del mondo, pur non essendo da meno.
Trasmessa a partire dal 2002 per cinque stagioni composte da 12/13 episodi ciascuna (tranne l’ultima di 10), The Wire (sito ufficiale) è senza dubbio la serie più complessa e ambiziosa che sia mai stata concepita. A differenza delle altre enumerate prima, che pure, rispetto ai telefilm dei canali free americani, hanno ben altro spessore in termini di complessità di scrittura e di tematiche controverse, The wire va oltre non tanto per la violenza visiva e il crudo realismo (che pure sono molto presenti in OZ e Sopranos, ad esempio) quanto per l’impossibilità di descriverne il concept in termini univoci.
In altre parole, mentre per gli altri successi HBO il concept, quantunque originale e complesso, è però chiaro nelle sue dinamiche e conseguenze (la vita quotidiana di famiglie mafiose, di becchini o di compagni di cella) per The wire si tratta solo apparentemente di un police drama: ad essere indagata nelle sue molteplici problematiche, nelle sue istituzioni e nelle vite dei suoi individui è un’intera città, Baltimora.
Una città scelta non a caso: è la città di origine dei due creatori dello show, David Simon (nell’immagine) ed Ed Burns. Il primo, ex giornalista di cronaca giudiziaria del Baltimora Sun, il secondo, ex poliziotto della sezione omicidi di Baltimora. Mentre l’uno scriveva dei 300 morti all’anno che la città colleziona in media da decenni, l’altro svolgeva le indagini per cercare di venirne a capo. Baltimora ha un tasso di omicidi sette volte superiore a quello di New York, seconda per numero di morti solo a Detroit. E’ una citta a stragrande maggioranza di afro americani, che da decenni subisce un lento e inesorabile declino nel numero di abitanti e nella sua qualità della vita. Il maggior numero di morti riguarda il controllo del traffico di stupefacenti.
Sono morti che avvengono nei quartieri più degradati, che non fanno notizia, non creano sdegno, che vengono relegati nei trafiletti della cronaca locale.
In questa città è ambientata la serie, che deve il suo nome alle cimici elettroniche e agli strumenti di sorveglianza tradizionalmente usati dalla polizia per indagare e ricostruire l’organigramma delle organizzazioni criminali dedite al narcotraffico.
The wire è dunque il racconto quotidiano e frustrante di una sezione di polizia e dei suoi tentativi di incastrare un potente narcotrafficante di cui, all’inizio, si ignora sia il nome che la faccia.
La sua struttura è interamente orizzontale. Non ci sono casi di puntata, ma un unico arco narrativo di stagione, o per meglio dire di serie, perché ciò che all’inizio viene raccontata come un’indagine di polizia su una singola organizzazione criminale allarga ben presto il campo a tutto ciò che ruota intorno al traffico di droga: mandanti, fornitori, riciclatori di denaro sporco, disfunzioni delle istituzioni preposte alla legalità e all’educazione, storture del sistema dei media. Tutto è posto sotto la lente della spietata indagine che la serie compie, in ultima analisi, sullo stile di vita americano. Ecco perché The wire è la serie più inclassificabile e complessa che si sia mai vista.
Il punto di partenza, come detto, è l’indagine che viene commissionata per dare un volto e un nome ad un trafficante di droga ritenuto responsabile di diversi omicidi, che fino ad ora se l’è cavata uccidendo o intimidendo potenziali testimoni e vanificando i relativi processi giudiziari.
Per fare ciò viene organizzata un’apposita unità investigativa, con elementi presi da vari dipartimenti: sezione omicidi, sezione antidroga, distretti nei quali sono avvenuti gli omicidi. Il problema è che, a causa delle croniche mancanze di budget e di personale di ognuna di queste divisioni, all’unità speciale vengono assegnati i più inutili e incompetenti elementi possibili, i rami secchi di ciascun dipartimento: un paio di ubriaconi che vengono dal deposito giudiziario, un poliziotto dell’antirapina che ha inscenato il furto della sua stessa auto, un anonimo funzionario dell’Ufficio pegni, un paio di novellini appena usciti dall’accademia.
A comandare il tutto, un tenente di grandi capacità ma scomodo per il suo non volersi piegare alla burocrazia del dipartimento. Con questo materiale umano inizia l’indagine. Senza anticipare troppo, alcuni elementi si riveleranno miracolosamente determinanti per gli sviluppi investigativi.
Occorre dire che fin da subito il punto di vista non è solo quello della polizia, ma anche dell’organizzazione criminale oggetto dell’indagine, che ci viene mostrata nel suo funzionamento, nelle sue gerarchie, nei suoi metodi di spaccio, con un realismo incredibilmente efficace, frutto della veterana esperienza, come già visto, dei creatori dello show nelle loro precedenti professioni.
L’indagine si prende i suoi tempi, nulla è piegato alle esigenze narrative. Tutto ci viene raccontato in uno stile scarno e documentaristico, senza ellissi narrative, scorciatoie, compresi i tempi morti in cui l’investigazione pare non andare avanti per insormontabili difficoltà. Intere giornate di appostamenti per fotografare gli elementi della banda criminale, per intercettare cellulari e telefoni pubblici, per costruire l’organigramma dell’organizzazione. Lavoro di polizia che si dipana poco a poco ad illuminare l’oggetto dell’indagine: basti dire, per fare un esempio, che il nome e il volto del capo della banda, Avon Barksdale, vengono finalmente individuati, del tutto casualmente, solo al nono dei dodici episodi della prima stagione. Il lavoro di polizia e lo spaccio di strada sono al centro di questa prima stagione: lavoro di polizia che trova la sua ragion d’essere, appunto, nelle intercettazioni, negli appostamenti e, non ultimo, nella presenza di informatori, che, nelle parole degli stessi poliziotti, sono la linfa vitale di un buon lavoro investigativo.
L’informatore di The wire, Bubbles, un tossicodipendente che conosce tutti nell’ambiente, è uno dei personaggi fondamentali della serie, uno dei più riusciti e toccanti. Come pure Omar, un ragazzo cresciuto per strada che di professione deruba e ridicolizza gli spacciatori, una sorta di robin hood dei quartieri più poveri di Baltimora.
Il bello di The wire, tra le altre innumerevoli qualità della serie, è che annovera tra i suoi personaggi fissi elementi mai visti in altre serie analoghe: tossicodipendenti, ladri, spacciatori, killer spietati, assurgono ai ruoli prominenti accanto a poliziotti, insegnanti, dirigenti scolastici e gerarchie istituzionali, compresi il sindaco e tutto il suo entourage.
Ne viene fuori un ritratto che, nelle parole di molti critici, assurge quasi ad un affresco dikensiano. Addirittura c’è chi ha scritto che, laddove la maggior parte delle serie aspirano alla complessita di un John Grisham, The wire ha come riferimento Dostoevskij.
Ma ciò che rende la serie una perla preziosa e perfetta nel panorama televisivo è soprattutto la sua costruzione tematica, la sua coerente linea che dalla prima alla quinta stagione forma un’unica e potentissima macchina narrativa.
E’ come se i creatori si fossero seduti intorno ad un tavolo ed abbiano cercato di rispondere nella maniera più approfondita possibile, per cerchi concentrici, alla seguente domanda: come funziona lo spaccio di droga?
La prima stagione si concentra dunque sul fenomeno dello spaccio di strada: i marciapiedi, i rifornimenti, i soldati, la divisione del territorio, le guerre tra fazioni diverse.
La seconda stagione allarga il campo cercando di rispondere alla domanda: ma da dove viene la droga? Ed ecco che al centro dell’indagine è il porto di Baltimora (uno dei più grandi e attivi d’America) e il modo in cui i container riescono a sfuggire ai controlli doganali trasportando non solo droga, ma ogni tipo di merce di contrabbando, compresi interi gruppi di immigrati clandestini, soprattutto donne dell’est, che poi vengono avviate alla prostituzione.
La terza stagione si concentra invece sul fiume di denaro che deriva dallo spaccio di droga: denaro che ha bisogno di essere riciclato, ripulito ed investito. Denaro che finisce nelle tasche dei fondi per le campagne politiche, dei palazzinari che progettano interi quartieri residenziali, dei funzionari e dei politici corrotti.
La quarta stagione tenta di spiegare come mai c’è tanta carne da macello lungo i marciapiedi della città: spacciatori, killer e tossicodipendenti che muoino come mosche, sempre più giovani. La stagione si concentra dunque sul sistema scolastico della città, sull’altissimo tasso di abbandono soprattutto nelle scuole dei quarteri più popolari, sui meccanismi di insegnamento e sul loro discutibile funzionamento.
La quinta ed ultima stagione, infine, è un atto d’accusa nei confronti del sistema dei media, e si focalizza sulla redazione del principale quotidiano della città, il Baltimora Sun (lo stesso in cui David Simon aveva lavorato per 13 anni) raccontando in che modo avviene il quotidiano lavoro redazionale, quali sono i criteri di notiziabilità, per quale motivo, in sostanza, la situazione così disastrosa in cui versa la città non viene efficacemente descritta e denunciata dai mezzi di informazione.
Alla fine della visione dei sessanta episodi di cui la serie si compone, si esce un pò frastornati e colpiti dalla profonda intelligenza di scrittura e di denucia che il telefilm fa in riferimento ai meccanismi di funzionamento delle istituzioni e alle loro devianze.
Perché, alla fin fine, solo apparentemente si tratta di Baltimora. Ad essere sotto la lente spietata e senza filtri di David Simon ed Ed Burns è l’intero sistema di vita occidentale. Baltimora come una qualunque delle grandi metropoli americane e, per molti aspetti, europee.
Questo è The wire. Se la si dovesse definire in rapporto a quanto si è visto di analogo in Tv e al cinema, la serie ricorda, nella struttura, la madre di tutti i polizeschi moderni, Hill Street Blues, nelle tematiche e nel modo di affrontarle, Traffic (sia la serie originale inglese sia il film che ne è stato tratto). Il lavoro quotidiano e frustrante dei poliziotti alle prese con continui intoppi burocratici e ristrettezze economiche, a fronte della vita agiata e ostentata degli spacciatori cui danno la caccia ricorda un pò Il braccio violento della legge.
Ma sono tutti paragoni che non rendono giustizia alla serie, che è così multiforme e complessa da inglobarli tutti, più che somigliare loro.
Senza esagerare, infatti, c’è da dire che, qualunque sia l’argomento affrontato dalla serie (e per come è concepita le tematiche sono davvero tante) non esiste attualmente nessun altro esempio che sappia raccontare temi analoghi con uguale o superiore approfondimento o potenza narrativa.
Nelle sua cronache di strada, in altre parole, The Wire è meglio di The shield. Quando parla di politica, riesce a eguagliare perfino West wing. Quando si sposta sull’analisi del sistema scolastico, è meglio di qualunque teen drama, quanto il migliore dei teen drama attualmente in onda, Friday Night Lights. Per non parlare della quinta stagione che si focalizza sui media, meglio di qualunque serie e film sull’argomento, o della seconda, in cui il racconto della vita dei portuali ha un piglio cronachistico e socialmente rilevante quasi si trattasse di un film di Ken Loach.
Inutile dire che la serie ha un’infinità di estimatori famosi, compreso Barak Obama, che l’ha indicata come migliore serie di sempre, aggiungendo che Omar Little è il suo personaggio preferito. Abbastanza sconcertante che il candidato alla Presidenza degli Stati Uniti abbia come personaggio preferito di una serie così discussa un ladro di spacciatori.
Ma è questo il bello di The wire: descrive un affresco così realistico e complesso, che anche killer e spacciatori meritano di essere raccontati nelle loro dinamiche, alla ricerca dei motivi profondi per cui fanno quello che fanno.
Con questa analisi spero, nel mio piccolo, di diffondere la visione di questa serie che è troppo poco conosciuta quanto invece meriterebbe.
Un unico appello a chi decidesse di intraprenderne la visione. L’effetto collaterale, una volta terminata, è il rimpianto di non poter guardare nulla di altrettanto appassionante ed intelligente. Qualunque altra serie che seguo (e il sottoscritto ne segue tante) impallidisce al confronto: i casi di puntata, i cliff al punto giusto, gli archi dei personaggi, tutto ciò a cui ci ha abituato la pur qualitativamente eccelsa serialità americana verrà a noia in confronto all’andamento imprevedibile e pieno di anticlimax di The wire.
La sigla di apertura della prima stagione della serie, che ne descrive con efficacia il “mood”:
P.S: Grazie allo splendido lavoro di Obsidian, traduttore di Subsfactory, che mi ha consentito di seguire e di apprezzare la serie in linqua originale.
P.P.S: in un episodio della seconda stagione e in uno della quarta, viene citato (con tanto di locandina fuori dal cinema e di copertina sul dvd, manco a dirlo, pirata) il film L’ultimo bacio di Gabriele Muccino. Nella prima citazione se ne parla come di un bellissimo film. Incredibile che David Simon ne sia un fan.
Marcus Daly