La finestra sul mondo può essere coperta anche con un giornale.
Stanisław Jerzy Lec, Pensieri spettinati, 1957
Gli aforismi più belli che riguardano il giornalismo sono riferiti, naturalmente, alla carta stampata. Probabilmente è solo perché un tempo si divertivano di più con gli aforismi e si collezionavano con più cura quelli veramente intelligenti, visto che non esisteva una fabbrica di frasi brevi, di battute-si-presume-brillanti come Twitter.
Ma le cose non è che siano molto diverse in televisione. Allora, dalla pungente osservazione di uno dei più arguti aforisti che la storia ci abbia consegnato, Stanislaw Lec, proviamo a chiederci se la finestra sul mondo, oltre che coperta da un giornale, possa anche essere ostruita da una televisione.
Lo spunto me lo offre la puntata di ieri sera di Presadiretta, programma che, personalmente, ritengo uno degli ultimi baluardi del giornalismo come lo considero io, nella sua accezione più nobile. Ma me lo ha offerto anche Servizio Pubblico (di cui ho già scritto) e tutti i talk show politici che si susseguono in questi giorni. Su alcuni non entrerò nel merito, visto che non si può nemmeno parlar di giornalismo ma di mero servizio alla campagna elettorale.
Partiamo da Presadiretta, con cui sono, proprio per l’alta considerazione, molto esigente. Così non parliamo di politica.
Il programma prometteva, ieri, di fare scottanti rivelazioni sul mondo del calcio, già sconquassato dalle inchieste sul calcioscommesse. Prometteva di rivelare i nomi dei calciatori di Serie A sponsorizzati dalla ‘ndrangheta. E tante altre cose.
A leggere i commenti sui social network (la maggior parte, almeno), i complimenti per la puntata di ieri si sprecano, come al solito. C’è un però, se no non saremmo qui a parlarne.
In un confronto con le redazioni di Calcioblog e di Sportemotori, dove ci sono persone – fra cui, lo confesso, il sottoscritto – che hanno letto le carte disponibili su “Last Bet” (l’inchiesta sul calcioscommesse. Ma anche quelle su Calciopoli, credete pure), un sentimento unico serpeggiava: la delusione.
«Perché?» vi chiederete voi.
Sintetizzando (ma non sarò breve), per questi motivi:
– la puntata non raccontava sostanzialmente nulla di nuovo rispetto a quanto già emerso negli ultimi 3 o 4 anni. Era dunque, più un racconto, un riassunto che un’inchiesta. Nulla di male, per carità, ma allora non c’erano rivelazioni scottanti, né prove di grandi novità. Bastava non creare l’aspettativa;
– c’erano, questo sì, interviste a personaggi che altri non hanno avuto. Ma l’intervista a Cristiano Doni, per esempio, conteneva un vulnus importante: quando risponde sulle partite del Siena, la domanda viene fatta in voice over e non in “presa diretta”. Doni non nomina mai Conte, nel soggetto della sua risposta, e non si sente alcuna domanda riferita a lui. Ma nella “voice over” si fa, invece, il nome dell’allenatore della Juventus. D’altro canto, la Juventus tira.
– il servizio è pieno di frasi come «Se hai giocato a calcio, al 90% sei stato coinvolto in una combine», «In Italia è normale mettersi d’accordo per combinare le partite», «Lo sappiamo tutti che il calcio è così, che il calcio è questo», «A volte può bastare una trattenuta in area, stare due metri avanti al tuo compagno di reparto e un attaccante può attaccare quello spazio, a volte può bastare stare due metri dietro e non far scattare il fuorigioco», «In ogni squadra forse c’era una persona che poteva essere disponibile per alterare il risultato». Tutte frasi pronunciate da persone indagate, alcune delle quali hanno ammesso le proprie responsabilità, e generalizzano. Quando si generalizza, bisognerebbe poi portare prove concrete a supporto; la puntata, invece, lasciava intuire e basta, suggeriva, insinuava nello spettatore la sensazione che fosse proprio tutto marcio;
– i due giocatori sponsorizzati dalla ‘ndrangheta: sarebbero Salvatore Aronica e Giuseppe Sculli. Quest’ultimo, è risaputo, è nipote di Giuseppe Morabito, detto ‘U Tiradrittu, boss della ‘ndrangheta. Le due “rivelazioni”, unica “novità” di tutta l’inchiesta, sono affidate alle parole di un pentito.
Ora. In sede processuale – i giornalisti non sono giudici, sia chiaro –, perché la dichiarazione di un pentito diventi una prova, è necessario seguire una prassi che si chiama convergenza del molteplice. Funziona più o meno così. Dato un fatto A su cui N pentiti fanno N dichiarazioni:
1) per prima cosa si verifica l’attendibilità degli N pentiti
2) una volta superato il punto 1), si verificano le loro dichiarazioni sul medesimo fatto A
3) se le dichiarazioni convergono, date 1) e 2), il fatto A diventa prova.
Il che può funzionare, o portare a clamorosi errori giudiziari come quello di Enzo Tortora.
Se in tv faccio dire a un pentito che tizio è stato sponsorizzato dalla ‘ndrangheta, e mi fermo lì (sì, certo: aggiungo che tizio non ha voluto commentare. Che avrebbe dovuto fare? Dire: «Certo che no»?), che giornalismo faccio? Soprattutto se annuncio che ho le prove? Non è meglio tenere un profilo più basso e raccontare che “sembrerebbe”. Che “caio dice di tizio”. Insinuare il dubbio, insomma?
– i fatti narrati sorvolano su molte vicende che emergono dalle carte. Cristiano Doni viene raccontato come uno che scommetteva per il bene della squadra. Di Vieri si dice che si sa che scommetteva tanto. Nell’anno dell’inchiesta, il calciatore non era più tesserato, quindi poteva scommettere senza problemi, fino a prova contraria di illecito.
Ci sono due specie di giornalisti: quelli che si interessano a ciò che interessa il pubblico; e quelli che interessano il pubblico a ciò che gli interessa − e questi sono i grandi.
Gilbert Cesbron, Diario senza date, 1963
Queste questioni, nella costruzione della puntata, lasciano francamente interdetti. E’ come se si dovesse per forza di cose raccontare un mondo marcio (sicuramente c’è del marcio, se ci sono dei rei confessi, questo non si può negare), anche a costo di generalizzare senza un supporto di fatti. 800 partite truccate in un anno? Le prove? Sono dichiarazioni di flussi anomali di scommesse notate da una compagnia che si occupa di scommesse. Sono prove? No. Lasciano intuire, anche qui. L’uso dei termini, nel giornalismo, è tremendamente importante.
Qualcuno obietterà che Presadiretta ha portato a conoscenza del grande pubblico del prime time (quello che vuole informarsi) temi che non sono di pubblico dominio. Io obietterò a questo qualcuno che l’ha fatto, ma con un approfondimento che si può offrire solo agli scarsamente informati, e con un racconto che puntava tutto sulle rivelazioni “shock”.
Serve davvero lo shock per fare ascolti? Forse sì. Ma allora, il giornalismo televisivo non rischia di tramutarsi clamorosamente in spettacolo?
La TV ha cambiato il modo di fare politica premiando il protagonismo.
Jean Baudrillard
In realtà la domanda è pleonastica. Lo show domina su tutto e i personalismi anche. Si creano personaggi, prima che giornalisti. E questi personaggi diventano poi, per forza di cose, portatori della verità assoluta, inconfutabili. Anzi, secondo una logica binaria che semplifica il pensiero e che azzera la critica e che aizza il tifo, se provi a confutare gli intoccabili diventi un nemico del bene collettivo, parte del problema e non della soluzione.
Il fatto è che il giornalismo-spettacolo, quando si traveste da paladino, quando usa quelle voice over che esaltano i toni bassi e confidenziali, quando si racconta nel suo eroismo, a me sembra il vero problema. Non offre un servizio reale al telespettatore, anche se lo illude di avergli raccontato tutto quello di cui ha bisogno, non informa davvero, non incide.
Si può fare giornalismo d’approfondimento in tv? La mia risposta resta sì. Ma bisogna evitare di fare concessioni allo shock e allo show, che con il giornalismo non hanno niente a che vedere.