Dal 2015 Sara Giudice è inviata di Piazzapulita, dove si occupa principalmente di raccontare i fenomeni migratori e tutto ciò che riguarda il sociale. “Quando racconto gli esteri, mi piace che abbiano sempre un legame con il nostro paese, che io amo raccontare nelle sue periferie e nei posti più remoti” spiega a TvBlog la giornalista classe 1986, che nel suo passato ha anche una militanza politica.
La prima visibilità televisiva per te arrivò proprio in relazione al tuo impegno in politica. Dalle fila del Pdl, proponesti, infatti, una campagna di raccolta firme per chiedere le dimissioni dell’allora consigliera regionale Nicole Minetti. Furono numerose le ospitate tv che collezionasti, da In onda ad Annozero. Quella visibilità mediatica era ricercata o arrivò inaspettatamente?
Ho molta tenerezza nei confronti di quella me stessa. Ero una giovane studentessa universitaria molto appassionata di politica. Quella che hai citato fu un’iniziativa del tutto spontanea, che portò a una visibilità inaspettata e anche molto importante da gestire, perché comunque quella mia azione riguardava persone che in quei momenti stavano ai vertici delle cariche pubbliche. Per me fu un momento di grande risveglio. Mi accorsi che stavo credendo nelle persone sbagliate, che non mi piaceva quel modello di gestire la cosa pubblica, intossicata dalla mancanza di meritocrazia e di un progetto sano per il paese. Decisi di mostrare pubblicamente il disprezzo per quello che stava accadendo e di questo vado orgogliosa. Lo feci in maniera forse un po’ ingenua, ma ci può stare considerando l’età che avevo. Sicuramente quell’esperienza mi aiutò a capire che volevo occuparmi della cosa pubblica dalla parte del giornalismo.
Corrado Formigli, intervistato da TvBlog, riferendosi alla mancata possibilità per Piazzapulita di occuparsi della scomparsa di Silvio Berlusconi, ha detto: “Non mi sono morso le mani”. A te, visto anche il tuo passato politico, sarebbe invece piaciuto occupartene?
Io non amo seguire la politica e mi occupo più di lavoro, di sociale, di immigrazione. Ovviamente un cronista appassionato ha sempre voglia di essere dentro la notizia e certamente mi sarebbe piaciuto che Piazzapulita fosse acceso in quei giorni per ricordare le luci e le ombre di Berlusconi. Forse il nostro racconto, pur nel rispetto della sacralità della morte, avrebbe tenuto conto anche di quelle ombre che in prima persona ho visto davanti a me.
Oggi, in generale, come ti relazioni con la tua passata esperienza in politica?
In realtà non c’è nessun tipo di relazione con quella storia lì. Per me quello è un percorso completamente chiuso.
Non hai mai avuto quindi implicazioni con quello che fai attualmente? Non ci sono state per te ripercussioni?
No, assolutamente no.
Che cosa ti ha spinto ad intraprendere la strada del giornalismo?
Sono cresciuta a pane e Oriana Fallaci durante i miei studi. La passione per il giornalismo viene da lì, da quelle letture fatte con la lucina in camera mia fino alle due o alle tre di notte. Ho trovato travolgente quel modo di fare giornalismo così dentro i fatti. All’inizio ho avuto paura di affrontare questo percorso, anche perché non ho voluto fare un master in giornalismo, preferendo un percorso di studi più legato alla comunicazione. Nel mio primo lavoro, come stage, guadagnavo trecento euro al mese e dovevo scrivere all’alba le notizie che si leggono in sovrapposizione in metropolitana. Sentivo che sarebbe stato un percorso lento e faticoso, sotto ogni punto di vista.
Qual è stata la svolta in questo percorso?
Dopo quattro anni a CNBC, il programma per cui lavoravo venne chiuso e così venni licenziata. Intrapresi dunque un periodo da freelance, nel quale riuscii a realizzare un’intervista a Can Dundar, un giornalista turco dissidente. Lo intervistai dopo essermi inventata di aver già concordato con lui un appuntamento per incontrarlo. Quando tornai in Italia, proposi questa intervista a Vittorio Zincone, autore di Piazzapulita. La stagione era ormai finita e quindi mi spiegò che all’intervista non erano interessati, ma mi propose di andare a fare un colloquio. Il colloquio che feci con Corrado andò bene e dopo alcuni giorni di lavoro in redazione si liberò un posto da inviata, quello lasciato da Francesca Mannocchi. Così io presi il suo posto.
Dal 2015 sei a Piazzapulita. Che cosa ti spinge a rimanere lì dopo così tanto tempo?
In primis Corrado, che per me è stato ed è un maestro. Si fa molta fatica a separarsi da lui perché senti che è una persona, oltre che un capo, da cui puoi sempre imparare. Nel mio percorso di crescita ho sempre percepito che lui ha creduto in me e questo è fondamentale. Ho sempre avuto il suo sostegno e la sua energia, a prescindere che una cosa riuscisse o meno. Poi c’è la libertà incondizionata di cui ho sempre goduto: non ho mai ricevuto indicazioni per fare o non fare un pezzo o per non occuparmi di temi e notizie che possono entrare in contrasto con quella che è la visione del mondo che indubbiamente il programma esprime.
Negli anni ti sono arrivate però anche altre proposte? Non hai mai valutato di lasciare Piazzapulita?
Sì, mi sono arrivate molte proposte, ma lasciare Piazzapulita non è un’ipotesi che ho mai realmente valutato. Ritengo più probabile pensare che io possa un giorno tornare a fare la freelance in giro per il mondo piuttosto che andare in un altro programma. Qui sto molto bene perché è un programma fatto da persone perbene, che sono per me una famiglia.
Continuare a fare l’inviata è quello a cui ambisci per il tuo futuro oppure dal punto di vista televisivo ti piacerebbe affrontare altri aspetti, come la conduzione?
Io sono un po’ anarchica e mi piace tantissimo stare in strada, consumare le suole delle scarpe, abbracciare le persone che incontro, piangere con loro. Dopo il servizio dell’anno scorso su Cutro ho avuto uno stress post traumatico per le cose che ho visto e vissuto su di me. Per me è difficile rinunciare a questo, perché questo lavoro per me è anima e corpo con le storie che racconto. Non mi ci vedo dentro uno studio televisivo con le luci a dire agli altri quello che devono fare. Poi nella vita non si sa mai, però per ora faccio quello che veramente desidero fare, raccontare.
Al racconto televisivo, recentemente hai accompagnato quello fatto per un podcast, Perché scappano. Voci di ragazzi tunisini. Come è nata questa esperienza e come è stato per te affiancare al lavoro per la tv quello per un podcast?
Per me è stato un esperimento, perché per la prima volta ho dovuto lavorare senza il supporto delle immagini. Io con Corrado ho imparato a dare una voce alle immagini. Lui mi ha sempre ripetuto: “Se non si vede, non esiste”. Tutto quello che raccontiamo in tv deve passare da qualcuno o da qualcosa che si vede. Per il podcast dovevo invece essere io a raccontare. Questa dimensione, nonostante mi abbia inizialmente messa in crisi, l’ho voluta e cercata perché, quando si fa, come nel mio caso, la scelta di rimanere legati sempre ad uno stesso posto di lavoro, bisogna comunque fare entrare luce anche da altre crepe. È un’esperienza che mi ha permesso di conoscere un altro pubblico che si è appassionato insieme a me a quello che raccontavo.
Cosa può aggiungere un podcast rispetto al racconto che la televisione permette di fare?
Il podcast può aggiungere dettagli e minutaggio: la televisione ormai ha tempi molto stretti e il pubblico cerca cose più rapide ed immediate. Il podcast ha invece una lentezza che permette di dare alle persone dei nomi e dei cognomi. Ti permette poi di raccontare le tue emozioni. In tv un giornalista non può raccontare le sue emozioni, anche se ci sono e ci esplodono dentro, quando stiamo dietro la telecamera e piangiamo per quello che vediamo. Nel podcast mi sono concessa di vivere queste emozioni con la scusa che dovevo raccontarle al pubblico che non poteva vedere. Il valore aggiunto che ho trovato nel podcast dimostra come sia importante non sentirsi mai arrivati. Questo lavoro deve essere continua messa in discussione e slancio verso i luoghi che ogni volta dobbiamo raggiungere. Quando non risponderò più con entusiasmo alle chiamate di Corrado per fare un pezzo, cambierò lavoro, perché sono così tante le cose che ti toglie a livello di tempo, energia e stress che, se non lo fai con amore e passione, è meglio smettere di farlo
Ci sono già altri progetti in cantiere per quanto riguarda i podcast? Nel caso vorresti mantenere sempre la dimensione del reportage o saresti disposta anche a sperimentare altro?
In questo momento mi sto concentrando su un libro sulla Tunisia che sarà pubblicato da Rizzoli nel 2024. Non ci sono altri progetti di podcast, ma sicuramente mi piacerebbe farlo, oltre che su un reportage, su un’inchiesta da realizzare, che mi permetta di raccontare qualcosa che sto scoprendo. Insomma, voglio rimanere sempre sul campo.