Sanremo, Ucraina
Il mondo globalizzato non consente di ignorare quel che accade lontano da noi. Anche perché “lontano”, oggi, è anche casa nostra.
In conferenza stampa dopo la seconda serata (flop) Fazio diceva, fra l’altro, stimolato da domande dei colleghi:
«L’Italia è un paese arrabbiato, per fortuna meno dell’Ucraina. L’Ucraina è un’altra roba…»
E comunque, sottolineava,
«gli altri italiani [quelli che non hanno visto Sanremo, ndr] hanno visto la partita, non sono scesi in piazza»
Già, non sono scesi in piazza, anche se il vento renziano del cambiamento non cambia niente. Non sono scesi in piazza perché non siamo l’Ucraina e per molti altri motivi, che sarebbe lungo – e fuori contesto – analizzare.
Per carità: ha ragione Fazio quando dice che comunque se c’è uno spettacolo si fa, ne abbiamo parlato mille volte da queste parti. Non è che si debba fermare tutto, nessuno può sostenere realisticamente una cosa simile. E infatti lo spettacolo avrebbe dovuto essere fatto con la stessa intensità e tensione dell’anno scorso. E invece, ‘ndo vai, se la banana non ce l’hai?
Ma se vogliamo parlare di contesti, oltre che di spettacolo televisivo, l’Ucraina non è così lontana, ed è un grave errore fingere che tutto faccia parte di un universo esotico che ci è estraneo, soprattutto in questo piccolo mondo globalizzato.
Per esempio, capita che una mattina sanremese ci si svegli nel proprio albergo, che si trasforma quasi in “casa” – lavorare dalla sala stampa, in questi giorni, è molto difficile. Questa mattina, per fortuna, la wi fi funziona, per dire –, e a colazione si scopra che l’Ucraina è anche qui.
La signora che mi serve il cappuccino si avvicina a me e ai colleghi e dice: «Voi siete giornalisti, vero?» «Sì, io sì», le rispondo. «E lo sapete cosa sta succedendo in Ucraina?»
E così viene fuori che quell’accento lì non è russo né rumeno, ma ucraino. Si siede accanto a noi: il fatto stesso che io sia un giornalista, anche se sono qui per occuparmi del Festival della canzone italiana, di cui probabilmente a lei interessa meno di zero, diventa, per lei, una condizione sufficiente per parlare. Ci racconta di casa sua in centro a Kiev. Del fatto che è venuta qui per aiutare suo genero e sua figlia, che gestiscono l’albergo e durante il Festival c’è molto lavoro e hanno bisogno di una mano: e quindi le interessa, in un certo senso, del Festival. Lei e il marito – che sembra burbero, ma solo perché evidentemente capisce molto meno bene l’italiano di quanto non finga. E quando capisce ti regala un sorriso che vale una vita – aiutano di buon grado i due giovani e intanto, grazie alla piccola tv perennemente accesa dietro al bancone della reception, seguono tutto il giorno le immagini di quel che succede a casa loro.
Ci racconta dei morti, dei giovani, e piange. Ci racconta il suo punto di vista, parla di Janukovyč e Putin e del fatto che i “ribelli” non sono estremisti come dicono ma gente normale, studenti, professori. Lei stessa, che qui ci prepara il cappuccino, è una professoressa e sarebbe tra loro, se fosse lì. Vuole tornare, anche se è pericoloso, dice. E tornerà finito questo periodo di lavoro per la figlia e il genero, per «vedere com’è casa. Ho lasciato casa, lì. E sono preoccupata», dice. Piange ancora un po’ e poi ci ringrazia per il solo fatto di averla ascoltata.
L’Ucraina non è così lontana. E’ anche a Sanremo. Ignorarla, così come ignorare il contesto italiano, il paese arrabbiato (anche se non scende in piazza e si guarda la partita) non farà il bene di nessuno show. E infatti Sanremo non pagherà alcun tributo all’Ucraina, per carità. Ma di sicuro paga il fatto di essere del tutto slegato dalla realtà.
A volte basterebbe un cappuccino in un albergo per tornare coi piedi per terra e prendersi meno sul serio. Dadaumpa.