Sabato, domenica e lunedì mortifica la scrittura di De Filippo: tra cinema e tv si perde il teatro di Eduardo
La parola di De Filippo si perde in una messa in scena più tv che cinematografica, mortificata dalla confezione e dalla mancata trasposizione dei codici.
Sabato, Domenica e Lunedì di Edoardo De Angelis con Sergio Castellitto fa un passo avanti rispetto al Natale in casa Cupiello dello scorso anno, ma non è detto che lo faccia nella direzione ‘giusta’.
Se la storia di Luca Cupiello e della sua famiglia era stata costruita come una trasposizione di un’opera teatrale nell’estetica di De Angelis, in un ibrido tra teatro e cinema che cercava comunque di sfruttare il mezzo per dare una diversa profondità al testo di De Filippo, questa volta l’audiovisivo occulta il testo teatrale, anzi lo mortifica:la trasposizione intersemiotica non c’è; non si lavora sui codici, si giustappongono.
Il risultato, dunque, ripropone il limite di Natale in casa Cupiello, ovvero quel non essere né carne né pesce, ma questa volta in un modo diverso. Paradossalmente c’è ancor meno teatro e decisamente più tv, anche se la velleità resta cinematografica: il risultato è una stonatura, cui contribuisce la colonna sonora insistita, fastidiosa, quasi parodistica, che distrae dal contenuto e dalla musicalità del testo eduardiano (già messo a dura prova dalle interpretazioni attoriali).
Come dicevamo, manca una piena trasposizione di codice. Il testo resta quello teatrale, con tutta quella ridondanza propria dei dialoghi di Eduardo necessaria per farsi seguire dal pubblico e per ‘far vedere’ le espressioni e le emozioni dei personaggi anche alle ultime file del teatro, con quel pizzico di caricatura che serviva proprio a marcare dinamiche e caratteri, ma che in tv finisce per togliere quella spontaneità e quella mimesi che invece la narrazione audiovisiva richiede per non risultare stucchevole e forzosa. La messa in scena è televisiva, con fotografia, scenografia e costumi che strizzano l’occhio alla fiction del daytime più che a quella del prime time ‘d’essai’. La regia, dal canto suo, offre un’immagine di De Angelis diversa dal solito (ed è un bene) èd è in continuo movimento, come a voler sottolineare la volontà di distaccarsi dalla fissità del teatro, ma non offre guizzi particolari anche se si concede qualche ‘licenza’ interessante, come la scena iniziale del protagonista sulla terrazza che si affaccia su Napoli con tanto di dromedario e Buscaglione sullo sfondo, in una scena dal sapore sorrentiniano.
E così questo Sabato, Domenica e Lunedì si presenta come un film nel movimento ricercato (e apprezzabile) ma con una confezione piuttosto piatta che ricorda i ‘paradisi delle signore’ di Rai 1 e con un testo rimasto integralmente teatrale che stona col resto. La ricetta non lega, i sapori non si fondono e – come lo scorso anno – il ragù di casa Priore-De Angelis non è equilibrato: l’olio sale a galla e diventa un po’ indigesto.
A rendere il tutto poco equilibrato anche il cast: rispetto a quello di Luca Cupiello, il personaggio di Peppino Priore sembra decisamente più adatto a Sergio Castellitto, con la sua albagìa e la sua diffidenza ostile. Donna Rosa Priore è tutta nella descrizione iniziale del ragù, ma Fabrizia Sacchi non riesce a uscire dalle righe del copione. Tutto sembra tornare al suo posto quando entra in scena Nunzia Schiano nel ruolo di Titina Piscopo, a dimostrazione che certi ruoli e certe storie devono ‘pippiare’ nei repertori degli interpreti per far uscire tutti i loro aromi. In questo senso, Adriano Pantaleo – già Tommasino Cupiello nella scorsa trasposizione – si conferma tra i migliori interpreti delle opere di De Filippo nella sua generazione.
Già, De Filippo. L’autore è in ogni parola, ma sembra frainteso: le parole che De Filippo misurava ed esaltava una ad una vengono buttate via, senza profondità. Averlo evocato nell’anteprima, con la spiegazione dell’opera che lui stesso dava introducendo le trasposizioni tv, ha l’aria di un autogol. Certo, come ogni altra trasposizione questa versione di Sabato, Domenica e Lunedì è un’opera a sé stante, inconfrontabile con gli originali dell’autore (che per primo le ha lavorate, rimaneggiate, trasformate, presentate in chiave diversa), ma considerabile solo in quanto testo a sé. E come testo a sé non convince, per quella forma ibrida che finisce per rendere proprio il suo cuore, ovvero il testo eduardiano con i suoi dialoghi e le sue descizioni – che il maestro pennellava e misurava, soffriva e trasformava in espressione -, come una stonatura, un peso, un carico che non fa respirare la storia. E se poi ci si mette sotto un tappeto musicale continuo, insistito, ripetitivo come si può apprezzare la densità del testo? Prosodia, intonazione, intenzione drammatica si perdono del tutto: la musicalità della parola eduardiana è azzerata.
Siamo al paradosso: si conserva in toto il testo originale (con qualche decisa variazione nel corpus dei personaggi, va detto), ma lo si depotenzia avvolgendolo di colori e di suoni estranei. Uno spreco.
Eppure la consapevolezza delle diverse forme era propria di De Filippo e potremo apprezzarlo ancora meglio con Non ti pago: basta vedere l’originale teatrale e il film che lo stesso Eduardo diresse per capire il lavoro di adattamento al mezzo messo in atto dall’autore. Ecco, qui tutto questo non c’è: siamo ancora di fronte a una via di mezzo tra un teatro che sembra ingombrante, snaturato da velleità cinematografiche che evidentemente vengono viste come un mezzo per ‘nobilitare’ un prodotto tv. Vedremo cosa ne sarà di Non ti pago lunedì 27 dicembre.