Roberto Benigni racconta la favola ‘più bella del mondo’ (video)
La più bella del mondo di Roberto Benigni: perché mi è piaciuto….
Roberto Benigni ha appena finito di raccontare la Costituzione al pubblico italiano con La più bella del mondo. E io l’ho sentita, più che vista, lavorando al pc e scorrendo Twitter, che probabilmente più dell’Auditel di domani e più della critica sui quotidiani ha registrato le reazioni allo show di Benigni con l’hashtag #lapiùbelladelmondo. Come sempre ci si è divisi tra chi esalta le capacità poetiche del premio Oscar e chi invece sottolinea le forzature storiche, finendo secondo alcuni per dare una visione eccessivamente edulcorata, fiabesca alla Carta degli italiani.
Ma a mio avviso Benigni non ha fatto altro che raccontare una favola, nel senso positivo del termine.
Seguendo lo schema già adottato per la Divina Commedia, è partito dagli articoli di quella che fin dall’inizio ha definito ‘iperbolicamente’ la Carta dei Desideri per darne una sua interpretazione, una sua lettura che, ci scommettiamo, finirà per essere distribuita nelle scuole italiane. Insomma, ha raccontato una storia, fatta di uomini lungimiranti, saggi, illuminati dalla luce del benessere comune, della lotta per la libertà, talmente ‘avanti’ da poter essere paragonati ai ‘sognatori’ di Woodstock, e ha offerto delle immagini che per alcuni potranno essere ‘semplicistiche’ ma che si rivelano, a mio avviso, ottime per rappresentare i valori che hanno mosso i padri costituenti e per restare nella memoria di chi l’ha seguito, per chi si è fatto accompagnare nel suo viaggio, per chi è rimasto sveglio fino alla fine.
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Uno studio freddo, probabilmente costruito per ricordare un’aula parlamentare, una luce bianca a render Benigni ancor più pallido, un attacco stanco, lento, confuso, come se fosse troppo emozionato o disorientato da una prima parte modificata al volo alla luce degli ultimi avvenimenti. Una partenza con Berlusconi che speravamo non ci fosse, ripetitiva, ormai superata, ma che tutti si aspettavano. E destino ha voluto che negli stessi minuti Berlusconi fosse intervistato da Del Debbio su Rete 4.
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E poi lei, la Costituzione. Almeno una parte di essa, quella da cui tutto è iniziato. E non a caso l’anteprima ha puntato sui tecnici al lavoro. Un omaggio alla Rai, ma anche all’Art.1 della Carta Costituzionale. Certo, la sintesi della storia del Novecento era fatta per i bambini delle elementari, ma forse troppo spesso dimentichiamo che i nostri parlamentari non ricordano chi ha vinto la Seconda Guerra Mondiale, quindi ben venga la semplificazione elementare. In Europa non è vero che c’è pace da 60 anni, ma pare che non se ne sia accorto neanche il comitato Nobel…
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Quindi spazio alla favola, al racconto che ammalia, conquista, affascina, anche se non sempre riesce a mantenere il ritmo.
La narrazione di Benigni procede per iperboli, si sa. E’ la sua chiave. L’idea del paesaggio come Madre, di Costituzione come difesa e proposizione in opposizione ai Comandamenti che sono un divieto e una condanna, di Palmiro e Amintore che si passano le canne per scrivere cose che nel resto del mondo sarebbero arrivate anni dopo, i principio della centralità dell’essere umano e della sua difesa dopo i tre peggiori totalitarismi della storia recente, ma anche l’attacco iniziale all’astensionismo, per quanto possano essere sembrati didascalici, in realtà non hanno fatto che sottolineare quell’ovvio che spesso ci dimentichiamo. E la forza messa nel descrivere la sottrazione dei soldi pubblici come uno schiaffo al principio fondante della solidarietà sarà forse riuscita a instillare in almeno un telespettatori un pizzico di indignazione in più per quel che si è sentito negli ultimi anni, tra rimborsi facili e sottrazioni indebite. E il parallelo con l’oscuro Medioevo resta un ‘bignamino’ invidiabile degli ultimi anni di politica italiana.
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Insomma, a mio avviso Benigni ha raccontato la storia di eroi dimenticati, da Calamandrei a De Gasperi, da Nenni a La Malfa. Politici, di quelli veri, che avevano fatto la galera prima di sedere in Parlamento, e non il contrario, sottolinea Benigni ricordando Pertini. Eroi nella narrazione, protagonisti di un racconto che punta a rendere epico e coinvolgente qualcosa che diamo per scontato, che misconosciamo e che forse epico non era. Ma non importa. L’epica non ammette la filologia storica. E’ un’altra cosa.
Sarà stato uno spettacolo poco televisivo, sarà anche poco filologico, ma la storia che Benigni mi ha raccontato mi è piaciuta. E’ una storia, un racconto, una fiction se volete. E’ la carta del desideri, no? E’ un po’ la descrizione dei desiderata di un popolo. Sarà stato uno show didascalico, ma per molti – di varie età – è probabilmente il primo ‘vero(simile)’ contatto con la Costituzione. E’ credibile come una biografia fictional di RaiUno? Può essere e sarebbe in linea con la rete.
A me è sembrata una forma di ‘resistenza’ all’ignoranza, un modo per offrire agli italiani un pizzico di coscienza di sé. Una resistenza passata anche per l’analisi linguistica, con la costante attenzione alle parole e ai verbi utilizzati per la stesura dei principi, al di là della scelta fatta. Se già domani mattina qualche italiano (no intellighenzia radical-chic, non mi interessa) si sentisse appena un po’ più coinvolto e partecipe di fronte alle ipotesi di modifiche alla Costituzione (spacciate negli ultimi tempi come un fastidio burocratico o poco più) sarebbe già un risultato. Già instillare un dubbio in un mare di certezze è un risultato. Alla fine la morale della favola resta l’invito a “leggere la Costituzione per tornare a possedere quello che è già nostro” in un contesto in cui sembra che si faccia di tutto per toglierci anche il ‘minimo sindacale’. Un modo per riprenderci qualcosa che ci è stato regalato e che noi abbiamo accantonato, come il diritto al voto, per intenderci.
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Il tutto al netto delle note eccessivamente sdolcinate, con questo continuo richiamo alla bellezza che è ormai un suo topos stilistico, e degli accenti retorici più ecumenici (“tornando a casa, date un bacio ai vostri bambini….“) che rendono lontano anni luce il Benigni che voleva bene a Berlinguer. Stasera però qualche guizzo di quel Benigni l’ho sentito, a sprazzi, come se le gioventù entusiasta della Repubblica Italiana avesse smosso anche la sua di gioventù.
Benigni resta un acrobata: la tecnica non gli manca, lo è stato davvero da ragazzo. Un acrobata della parola, ma soprattutto un acrobata dell’interpretazione del testo, alla ricerca di metafore ed analogie che colgano l’aspetto profondo delle cose portandole in superficie con semplicità. Chiamatela poesia, per me è affabulazione. E’ bravo a raccontare storie, le rende credibili. E se permettete preferisco le sue a quelle di altri.
E poi se è stato osannato e premiato con un Oscar per un film che per me è razionalmente inaccettabile come La Vita è Bella, perché non può prendersi una standing ovation urbi et orbi raccontando i sogni di un’Italia che sembra sepolta e che sembra voler rianimare con l’aiuto del Popolo Sovrano, quello che vota, non che televota. E alla fine chiude con proprio con la colonna sonora de La Vita è Bella. E tutto torna…
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