Rivoluzione in Rai (2)- Si comincia a parlarne, è solo una boutade o una necessità
In un post di qualche settimana ho con prudenza parlato della necessità di una rivoluzione in Rai, da cui far cominciare una complessiva rivoluzione nel sistema televisivo italiano. Ora leggo sul “Corriere della Sera”del 19 febbraio che Dario Nardella del Pd, vicesindaco di Firenze e deputato, torna e riapre con decisione lo stesso tema. Destinato
In un post di qualche settimana ho con prudenza parlato della necessità di una rivoluzione in Rai, da cui far cominciare una complessiva rivoluzione nel sistema televisivo italiano.
Ora leggo sul “Corriere della Sera”del 19 febbraio che Dario Nardella del Pd, vicesindaco di Firenze e deputato, torna e riapre con decisione lo stesso tema.
Destinato a sostituire Matteo Renzi della città, Nardella precisa: “La Rai merita una rivoluzione. La politica deve occuparsene non per cambiare qualche direttore, ma per stabilire in modo chiaro quale servizio pubblico radiotelevisivo si deve fare. Dopo penseremo chi serve per gestirlo. Sono certo che Renzi affronterà radicalmente anche questo tema. Facendo quel che si dice da sempre e non si fa mai: fuori i partiti dalla Rai”.
E’ vero. Da anni lo stallo è sempre più grave. I direttori si susseguono ma il massimo che riescono a fare è contenere il deficit (senza riuscirvi) e di mantenere spesso con fatica il primato della Rai negli ascolti.
Ma il disagio è profondo. Vanno cambiate cose essenziali.
Basta con le reti affidate più o meno, confusamente ma rigidamente ai partiti o aggregazioni di partiti. Ideazione e produzioni sono stantie, ripetivive; reggono soltanto l’ispirazione tradizionale di servizio pubblico sempre più inquinata che invecchia nel tempo . Aumenta la funzione da ufficio di collocamento partitico , clientelare, nelle tre reti principali generaliste e nelle reti del digitale.
Basta con una vaga linea editoriale complessiva, frutto di molti compromessi, caratterizzata dalla passiva dipendenza dalla pubblicità, su cui modellare i programmi.
I dirigenti delle clientele partitiche risalenti alla fase post- riforma (dal 1975) sono cresciuti alla luce ma più all’ombra dei partiti, dei gruppi di influenza, delle trattative regolarmente sottobanco.
I portaborse sono via via diventati grandi capi, spesso senza competenze, incapaci di imparare e quindi di far crescere nuovi quadri e nuovi autori.
Sono anni che un vero rinnovamento è fermo.
La Rai è manipolata e incerta. Naviga a vista. Gestisce con apparente sicurezza il suo presente e il suo futuro, fissata da abitudini controproducenti.
La grande maggioranza dei dipendenti vive in una condizione di esasperata mancanza di fiducia e soprattutto sembrano ormai rassegnati alla routine.
Ho il massimo rispetto della Rai e delle possibilità di lavoro e di prospettiva che si sono presentate nella sua lunga esistenza. Ma bisogna svegliarla.
A Roma, per poi trasferirsi a Milano, è stata aperta a fine gennaio la mostra “La Rai racconta l’Italia”, dedicata ai 90 anni della radio e ai 60 della televisione.
Non è la prima volta per la Rai che vengono i tempi di celebrazioni, anzi, accade ogni decennio, a volte ogni lustro.
Più o meno tutti siamo d’accordo che ne valga la pena, per compiacerci e per fare bilanci utili, positivi, a volte persino esaltanti; si pensa però solo al vecchio ruolo storico che radio e tv Rai hanno svolto nel bene più che nel male per il Paese, per i cittadini e l’immagine del Paese all’estero. Però.
Però, sono passati dal 1980 trentaquattro anni dalla nascita e dallo sviluppo delle altre tv:soprattutto Mediaset e i canali Sky. Così è accaduto per la radio.
E’ passata, si è consolidata un’enormità di tempo.
Le celebrazioni hanno un rituale che è sempre lo stesso; del rituale conosciamo tutto, incoraggia sempre meno, l’orgoglio d’appartenenza alla Rai è precipitato. Il ruolo dei media è mutato. L’assetto generale è bloccato. Il digitale funziona male o non funziona. La programmazione si è appesantita, ha perduto risorse, compra e non inventa, si accoda ai prodotti esteri, copia, soddisfatta della sua spenta continuità. (3-segue)