La politica e l’assalto alla Rai. Ma la storia insegna che il ‘dominio’ non è sinonimo di (futura) vittoria
Che la politica influisca sugli equilibri e sul racconto della tv di Stato è un dato di fatto. Sarebbe tuttavia curioso domandarsi se la ‘conquista’ della Rai porti nel corso del tempo effettivi benefici a chi la effettua
Epurati, messi nelle condizioni di andarsene, migrati altrove per loro volontà e interessi. Ognuno ha la sua verità, fatto sta che sui casi Fazio, Littizzetto, Annunziata (e probabilmente altri ancora) pende la questione del cambio di narrazione e di turn-over legato all’avvento del centrodestra al governo. D’altronde, è stato lo stesso Matteo Salvini a commentare con un provocatorio “belli ciao” la conclusione dell’avventura di Che tempo che fa in Rai.
Che la politica influisca sugli equilibri e sul racconto della tv di Stato è un dato di fatto. Che si sia cominciato solo adesso, però, è un falso storico di cui tutti sono a conoscenza. La storia è piena di arrivederci e ritorni, di promozioni e declassamenti, per non parlare degli editti, pronunciati in Bulgaria o nelle segrete stanze.
Sarebbe tuttavia curioso domandarsi se la ‘conquista’ della Rai porti nel corso del tempo effettivi benefici a chi la effettua. Perché, oltre all’immaginabile desiderio di rivalsa dopo anni all’opposizione, c’è pure un discorso di resa da analizzare.
A tal proposito, è la memoria la migliore consigliera. Nel 2001, alle elezioni politiche che portarono al trionfo di Silvio Berlusconi contro Francesco Rutelli, il centrodestra ottenne una vittoria “piena e legittima”, come scrisse Ezio Mauro su Repubblica. Un exploit avvenuto dopo una delle campagne elettorali più dure e agguerrite di sempre, con il leader di Forza Italia che denunciò a più riprese un accanimento di satira e programmi televisivi della Rai nei suoi confronti.
Non solo Michele Santoro con Il Raggio Verde, con il Cavaliere che telefonò in diretta per ricordare al conduttore che era “un dipendente del servizio pubblico”, ma anche Satyricon di Daniele Luttazzi (che regalò la notorietà televisiva a Marco Travaglio) e Il Fatto di Enzo Biagi, che diede voce a Roberto Benigni a tre giorni dal voto e a ventiquattr’ore dal silenzio elettorale.
“Non voglio parlare di politica, sono qui per parlare di Berlusconi”, esordì l’attore. “Voglio essere equidistante: Berlusconi non mi piace, Rutelli sì”. Fu soltanto l’antipasto: “Accadono cose spettacolari, inaudite, il Papa che è entrato per la prima volta in una moschea, bambini geneticamente modificati, Berlusconi probabile presidente del Consiglio”.
La bufera si innescò immediatamente e Santoro, nel bel mezzo del caos, decise di rimandare le immagini di Benigni il giorno successivo nella sua trasmissione. A commentarle, in studio, venne invitato nientemeno che Rutelli.
Fino a qualche settimana prima, invece, ci aveva pensato L’Ottavo Nano a pungere Berlusconi, imitato da Sabina Guzzanti.
Come detto, il vento a favore non portò consensi alla sinistra, mentre l’idea del “tutti contro di me” fu decisiva nella narrazione berlusconiana.
Una volta a Palazzo Chigi, ovviamente, gli equilibri mutarono. Biagi, Santoro e Luttazzi furono allontanati, a vantaggio di altri volti che importarono il loro stile, la loro impostazione, i loro argomenti. E così, ecco Excalibur di Antonio Socci, Punto e a Capo di Giovanni Masotti e Daniela Vergara, Alice di Anna La Rosa. Esperimenti, sotto il profilo dell’Auditel, a dir poco fallimentari, che non fecero altro che alimentare il paragone con i predecessori. Andò meglio a Confronti di Gigi Moncalvo, ex direttore de La Padania in quota Lega, capace comunque di mettere in piedi un talk apprezzato.
Su Rai3 durò appena una puntata Rai Ot, show satirico con Sabina Guzzanti che apparve in video il 16 novembre 2003 per scomparire subito dopo. L’alto ascolto (18% di share) non bastò ad evitare la cancellazione, a cui contribuì anche la querela per diffamazione avanzata da Mediaset per via di alcune battute della comica sulla legge Gasparri.
Nel frattempo, nel 2002 al Tg1 era sbarcato Clemente Mimun. Rimase alla direzione del telegiornale fino al 2006, anno delle nuove elezioni politiche che videro Berlusconi sfidare Romano Prodi. Lo stesso Mimun, pochi mesi prima che si tornasse alle urne, finì alla guida del Dopo Tg1, striscia di pochi minuti in access prime time. A cedergli il testimone, nel dicembre precedente, era stato Batti e ribatti, chiamato a sostituire Il Fatto di Biagi e che vide alla conduzione, in successione, Pierluigi Battista, Oscar Giannino e Riccardo Berti.
Nonostante una grande rimonta realizzata negli ultimi giorni, Berlusconi non riuscì ad evitare il ko elettorale, seppur per una manciata di voti. Al governo ci tornò Prodi e, nell’autunno del 2006, Rai2 riaprì magicamente le porte a Santoro, al timone di Annozero in seguito ad una rapida quanto rumorosa candidatura al Parlamento Europeo. Nell’aprile successivo toccò a Biagi, protagonista di sette puntate di RT-Rotocalco Televisivo.
Al Tg1, a rimpiazzare Mimun era stato Gianni Riotta. Un mandato durato tre anni, uno in più dell’esecutivo di Prodi, caduto per mancanza di numeri al Senato. A beneficiarne, contro Walter Veltroni alle elezioni del 2008, ancora una volta Berlusconi, che in quel biennio era stato in minoranza.
A riprova di come l’ambizione di una Rai ‘monocolore’ non sia per forza sinonimo di affermazione.