QUESTA E’ LA LORO TERRA
Mi sono messo con curiosità davanti al video per vedere la prima puntata di “Questa è la mia terra”, trasmessa da Canale 5. Non mi è dispiaciuta ma non mi è neanche piaciuta. Una ragione c’è, e riguarda un fatto che vorrei portare a conoscenza di tutti, senza peraltro aprire polemiche. Le[…]
Mi sono messo con curiosità davanti al video per vedere la prima puntata di “Questa è la mia terra“, trasmessa da Canale 5.
Non mi è dispiaciuta ma non mi è neanche piaciuta. Una ragione c’è, e riguarda un fatto che vorrei portare a conoscenza di tutti, senza peraltro aprire polemiche. Le polemiche non mi interessano. Mi interessano le esperienze.
Dunque.
Da anni pensavo a un film o anche a una fiction (si possono fare bene e non hanno in questo caso nulla da invidiare al cinema) dedicata alla bonifica pontina. Conosco la zona e conosco la sua storia. Mi ero documentato e avevo scoperto che la bonifica non era soltanto una conclamata gloria del fascismo, che l’aveva realizzata, ma era anche e forse soprattutto una non gloria di un’Italia che aveva cominciato a parlare della stessa impresa dalla fine dell’Ottocento.
Da quando c’era il re, c’era il parlamento dell’Italia unita da quarant’anni circa e c’erano tante cose per unire il paese e rimediare alle sue arretratezze. Venne stanziata una cifra per affrontare un progetto per sanare una situazione che si trascinava da secoli.
Chi ricorda il film “Il cielo sulla palude” di Augiusto Genina, 1949, imperniato sull’assassinio di una ragazza che resistette al suo violentatore Maria Goretti – proclamata santa dalla Chiesa – ricorda le splendide immagini che presentavano le arretratezze e lo squallore di una terra malata di malaria e di stenti. Era una vicenda dei primi del Novecento che riapriva la questione di una zona trascurata da sempre, e da sempre abbandonata nonostante i propositi di risanarla risalenti addirittura ai tempi dei romani.
La bonifica, fatta negli anni Venti-Trenta, recuperò terra ed edificò città, paesi, borghi. Si mobilitarono masse contadine e operaie. Fu un’impresa colossale che coinvolse gente povera, emigrata da regioni lontane, dal veneto in particolare. Un’impresa che, per le sua caratteristiche, mi pareva perfetta per un soggetto cinematografico o televisivo, come ho detto.
Ma le resistenze a farlo vennero subito fuori. I produttori e i dirigenti delle tv per prima cosa non capivano. Molti di loro conoscevano poco o per nulla questa storia, e certo non potevano neanche sapere che l’impresa pontina richiamò osservatori persino dall’Unione Sovietica, e questo accadde in pieno fascismo, osservatori che venivano per studiarla e avere indicazioni per esportarne i criteri. Quel che produttori e dirigenti non sapevano o non volevano capire era la qualità umana della storia e di chi vi aveva partecipato.
Pensando che fosse stata una realizzazione del fascismo con copyright , la scambiavano erroneamente per un’avventura destinata esclusivamente ad esaltare il regime mussoliniano. Roba da pazzi. Come se in America i produttori si fossero rifiutati di proporre un film da “Via col vento” solo perchè la vicenda di Rossella O’ Hara chiamava in causa il Sud impegnato nella guerra con il Nord. La stessa America che ci ha insegnato, con telefilm – ad esempio “Radici” – che hanno trattato i temi del West e dei pellerossa come parti essenziali di una storia complessiva, in cui violenza e razzismo hanno avuto una parte importante, superata, e comunque esemplare.
Rifiuto dopo rifiuto, rinunciai a insistere sulla proposta che poteva essere appunto un tratto delle “radici” del nostro paese che esitava, rimandava, sciupava idee e finanziamenti, finchè non arrivò Mussolini e soprattutto chi seppe fare la bonifica e ne fece inevitabilmente un uso propagandistico.
Avevo messo nel cassetto delle intenzioni o dei sogni perduti la proposta allorchè con un attore molto popolare, Giorgio Biavati, uno che aveva lavorato con Dario Fo ed è in seguito diventato uno dei divi della fiction, riparlammo della idea originale sulla bonifica e sulla possibilità di portarla sul video. Scrivemmo un soggetto. Ancora una volta s’incontrarono ostacoli, diffidenze, paure. Poi, all’improvviso, la svolta. Ci pagavano il soggetto per trasformarlo e tradurlo nei copioni che compongono le otto puntate di “Questa è la mia terra”, sceneggiate a più mani e dirette da un regista a noi sconosciuto.
Che si poteva fare? Accettammo. E dopo una lunga lavorazione, ecco che la storia ampiamente rimaneggiata e adattata ha trovato la via del piccolo schermo, cancellando il soggetto originale e i nomi di chi ci aveva lavorato. Sono cose che succedono. Cinema e TV sono piene di fatti simili. Adesso bisognerà vedere come proseguirà il racconto nelle puntate che restano. È presto per dare un giudizio. Ma una osservazione mi sento di farla e riguarda questo lavoro come altri, dal “Bartali” appena trasmesso o alle altre fiction ambientate in un periodo che va dagli anni Venti-Trenta agli anni Sessanta.
Il design, come lo chiamano in America i tecnici della sceneggiatuta, ovvero le immagini d’epoca dei lavori che ripropongono questi periodi storici sono o meglio sembrano drasticamente uguali, propongono, anzi ripropongono cliché, stereotipi, colori, costumi, scenografie, tagli e montaggi che eliminano differenze e tutto riconducono in un’Italia da cartolina o da Domenica del Corriere. Forse ciò avviene perchè il design è frutto di riutilizzo di oggetti e di maniere stilistiche che hanno creato una maniera in cui tutto appare uguale.
Non so se si tratta di una conseguenza del tipo di modo di produrre delle TV, ma non si può invocare il vecchio cinema in bianco e nero per dire che accadeva la stessa cosa proprio a proposito di storie popolari. Infatti, tra un Giuseppe De Santis (”Riso amaro”) e Raffaello Matarazzo (”Catene”, “Tormento”) non c’era una omologazione né di stile né di forme, erano film diversi, senza per questo negare l’uno con l’altro. Come del resto avviene per il cinema o per la TV americani in cui le storie reali o realistiche hanno ciascuna proprie caratteristiche. Insomma, temo appiattimento e scarsa inventiva in quel genere TV italiano, ormai destinato ad assorbire un pubblico di massa come il vecchio cinema, che rischia di archiviare le storie del nostro paese tra sentimentalismi e schematismi; e rischia soprattutto di trasformare il paese dove c’erano le lucciole, come diceva Pasolini, in un paese di lucciole impallidite, anemiche, deboli, mininliste, anche se si tratta di storie importanti, decisive, forti,e ingombranti solo per chi ha timori ideologici postdatati e ha solo il coraggio di sfruttare i venti favorevoli, ovvero i canali giusti, in ogni senso.
Italo Moscati