Piero Chiambretti a TvBlog: “Avrei voluto cambiare nome a Tiki Taka. Sto scrivendo un programma per la prima serata di Canale 5”
Intervista a Piero Chiambretti: “Avrei voluto cambiare nome a Tiki Taka, mi dissero di no. Autoreferenziale? Porto in tv la mia griffe”. E su Fazio…
Due anni di Tiki Taka ed un solo grande rammarico. “Avrei dovuto difendere l’idea di cambiare nome al programma”, confida Piero Chiambretti a TvBlog. Un aspetto apparentemente marginale, ma che in realtà si è rivelato decisivo, perché per tutto il tempo è sempre rimasto sullo sfondo il paragone con la gestione di Pierluigi Pardo, che lanciò la trasmissione nel 2013. Insomma, un’eredità pesante che eredità non sarebbe dovuta essere. “Mi dissero di no per una questione di merchandising, ma i loghi erano diversi, i colori pure. E’ stato un errore che mi ha messo in condizione di essere confrontato col predecessore. Non volevo, mi interessava realizzare una griffe, differenziandomi da un passato luminosissimo. Tuttavia, se era stato così luminoso, vorrei capire perché si decise di cambiare. La risposta non la sa nessuno, ma la tv pone spesso domande senza risposte”.
Fosse dipeso da Chiambretti, il titolo sarebbe stato La Repubblica del Pallone, dicitura poi aggiunta in corso d’opera: “Sarebbe stata la cosa migliore. Vedere una propria trasmissione sfigurata può creare fastidio, lo darebbe pure e me. Ma nessuno in realtà ha snaturato nulla. Ho fatto un programma firmato da me. Se si fosse chiamato solo La Repubblica del Pallone, l’accostamento non sarebbe stato così esplicito”.
Il bilancio in ogni caso è positivo, nonostante la fatica abilmente ingigantita dal conduttore, che sulla surreale figura del pesce fuor d’acqua ha imbastito l’intera avventura. “Ho ancora le stigmate sulle braccia e sulla schiena – ride – è stata una piacevole sofferenza, perché fare il calcio senza avere la patente ufficiale dall’albo dei giornalisti televisivi e della carta stampata è una missione difficile da portare a casa. Credo di avercela fatta. Non era esattamente il mio ambito, ero stato dato in prestito dalla struttura dell’intrattenimento a quella dell’informazione. Questo ruolo mi fu assegnato da Piersilvio Berlusconi, ho seguito un’indicazione di fondo e ho fatto ciò che so fare meglio. Ho mescolato i linguaggi, portando ironia in un mondo che ne ha sempre meno”.
Ambientarsi è stato complicato?
Ringrazio il gruppo che mi ha seguito fin dall’inizio. Non mi ero mai occupato di calcio in senso stretto e siamo partiti nella maniera peggiore. Abbiamo preso quota pian piano. Affermai che sarebbero serviti 3-4 mesi per trovare una quadra, per generare i tormentoni e costruire una scaletta intelligente. La previsione si è avverata. Sui social sono stato sotterrato da molti insulti che probabilmente meritavo. Io non replico mai, anzi sono felice di scatenare sentimenti opposti.
Alla fine sono arrivati pure i premi. Missione compiuta, non crede?
In genere i premi li danno a chi li va a prendere. Ma in una stagione ne abbiamo ritirati tre, sufficientemente prestigiosi, dal momento che sono premi sportivi come il ‘Nereo Rocco’ ricevuto a Coverciano, il ‘Renato Cesarini’ in concomitanza con la Domenica Sportiva, che è un monumento al calcio parlato, e un terzo come comunicatore dell’anno. L’aspetto interessante è che sono riconoscimenti giornalistici e io non sono un giornalista. Il giornalista deve avere un’etica. Io mi considero una persona corretta sul fronte della morale, meno su quello dell’etica. Nel mondo del politicamente corretto occorre avere misura e coraggio, altrimenti è una noia, una brodaglia che non fa né bene, né male, che non è né scotta, né al dente.
Col pubblico in studio sarebbe stata un’altra storia.
Sì, il pubblico è mancato. Una platea calda da curva, in quel contesto, avrebbe donato al programma e a me una forza superiore a quella di Superman.
La scelta di lasciare quando è arrivata?
Già all’inizio della seconda edizione annunciai in una riunione che anche se avessimo vinto il premio Pulitzer non avrei proseguito.
Ad aprile mostrò in puntata un’ipotetica classifica stilata senza considerare i torti arbitrali subiti dalle singole squadre. Fu un errore?
Il programma l’ho scritto immaginando una commedia dove tutti gli intervenuti interpretano qualcuno, dove si amplificano le varie caratteristiche caratteriali dei presenti, dal direttore di quotidiano, al provocatore, passando per il tifoso esasperato. Se mentre mostro quella classifica Zazzaroni e Cruciani mi contestano, urlandomi che è un fake, abbiamo nell’immediato i due elementi che creano il corto circuito. Non so se mi spiego. Io pongo una classifica provocatoria e gli altri, senza saperlo, danno il volto all’altra faccia della medaglia prendendone le distanze.
Fu un’iniziativa personale o concordata con la redazione sportiva?
Nessuno ha mai parlato di un documento ufficiale, nemmeno di un qualcosa che provenisse dalla redazione sportiva. Parlai da subito di iniziativa personale che mettevo a disposizione dei commenti. Marco Mazzocchi mi ha attaccato, ma la sua polemica faceva ridere i polli.
E’ capitato che il programma cominciasse dopo mezzanotte, spinto oltretutto da show con ascolti bassissimi.
Sono da sempre abituato a considerale le varianti, chiamiamole così. Sappiamo benissimo che i dati dell’Auditel sono freddi, i numeri non hanno cuore e devono essere presi per quello che sono. Le medie partono da un primo punto e vengono calcolate con l’ultimo. Se il primo è collegato al traino, significa che parto con un tesoretto non mio. Se comincio con un 2-3% è un po’ come quando a scuola prendevo 4 in pagella ad inizio anno e dovevo arrivare a prendere 8 per raggiungere un voto decente. La partenza in salita non ha aiutato la lettura dei risultati. E’ bastato collocare la saga di Fast & Furious per tornare in alto. Eppure il programma era sempre lo stesso. Un esperimento curioso sarebbe stato quello di prendere una puntata da 4% e metterla al posto di quella che ha raggiunto il 7. Avrebbe totalizzato il 7. Sono piccolezze del micromondo televisivo. Per me conta il programma, l’averlo portato a casa con leggerezza ricordando che in fin dei conti il calcio è evasione.
Quindi missione compiuta.
Riuscire a portare Italia 1 ad una media superiore alla rete, in una serata dove dalle 24 alle 2 di notte avevo il Grande Fratello Vip che raggiungeva picchi del 35%, rappresenta un miracolo. Ho salvato la mia pelle e ho tenuto alto il pennone di Mediaset che il lunedì sera ha vinto sia con Canale 5 che con Italia 1.
A tratti si è percepito un eccesso di ‘chiambrettismo’ autoreferenziale. Negli automatismi, nell’estetica, negli ospiti coinvolti.
Ritengo che un marchio diventi tale quando propone uno stesso disegno in modi sempre diversi. Non oso paragonarmi a personaggi del cinema, ma Hitchcock, Tarantino, Sorrentino sono sempre loro. Mutano i temi, ma certe situazioni si ripetono. Sono fiero di aver portato in tv oltre trenta programmi riuscendo a imporre una mia griffe. Accendendo il televisore, in una marmellata che è tutta identica ti accorgi subito di un mio programma.
Una sera coinvolse Melanie Moore, nel suo cast ai tempi di Markette. Onestamente, c’entrava davvero poco.
Se lei ha guardato quell’intervento sa che si è trattato di un pezzetto di un minuto e venticinque secondi. La Moore è stata invitata perché vive ad Abu Dabi, dove il marito è proprietario di uno stadio. Ci ha riferito che la maggior parte degli arabi ama il calcio, ma dopo il cricket e la corsa dei cammelli e la mia curiosità stava nel sapere quanto interessasse al mondo arabo dell’esclusione dell’Italia dal Mondiale del Qatar. E’ stato un modo inedito per parlare di calcio, sfruttando elementi che muovono la scaletta. Non penso che fosse un peccato di autoreferenzialità.
A più riprese si è avuta la percezione che la scaletta seguisse le sue priorità, piuttosto che quelle dettate dall’attualità.
La scaletta veniva preparata dal sottoscritto già il lunedì notte, al termine della trasmissione durante il mio rientro a Torino. Dal mercoledì al venerdì si scriveva e si operavano dei ritocchini, poi nel weekend si chiudeva con un’accelerazione, cercando di arrivare ad un insieme di elementi che formassero un racconto. Si teneva conto dei temi del campionato, ma vorrei ricordare un piccolo dettaglio: arrivavamo per ultimi. C’erano state le chiacchiere del sabato, della domenica e dell’intero lunedì. Noi arrivavamo a mezzanotte. Secondo lei avremmo potuto seguire una scaletta uguale a quella di altre trecento trasmissioni? O forse era meglio provare a tradurre le partite da un punto di vista diverso? La scaletta è stata sempre pertinente ai temi, non ho mai usato un argomento che non partisse dal calcio. Ovviamente il mio ruolo era traslare certi temi in qualcosa di divertente. Analizzando i numeri, ci siamo resi conto che avevamo una buona fetta di pubblico che amava il calcio e una fetta ancora più grossa che lo sopportava. Abbiamo allargato il campo. Certo, si può fare sempre meglio. Ma anche nulla. Così di sicuro non si sbaglia.
Mollato Tiki Taka, c’è un futuro tutto da scrivere.
Il futuro è sempre incerto, ma c’è la consapevolezza nell’azienda di un mio ritorno all’intrattenimento, magari con l’azzardo di andare in prime time. Di seconde e terze serate ne ho fatte abbastanza, quando erano il vero fiore all’occhiello della tv. Sono state per vent’anni le collocazioni più pregiate. Purtroppo, da qualche anno le prime serate si allungano fino alla mattina e in questa fase se vuoi sentirti utile alla causa devi tuffarti proprio nella prima serata. C’è un pubblico potenziale vasto e, vedendo quello che c’è in giro attualmente, potrei fare qualcosa.
Ha dei progetti in tal senso?
Il mio futuro è nell’intrattenimento, non so dove e quando. Sto scrivendo un programma per Mediaset, sempre che Mediaset voglia farlo. Se non volesse, i giochi cambierebbero perché non ci sarebbero più spazi per me in quest’azienda. Ma penso che se uno regge per dodici anni, facendo sempre la voce fuori dal coro e non seguendo le regole, è probabile che abbia l’antidoto a finali tragici. A Mediaset mi trovo bene e mi auguro di realizzare questo format su Canale 5.
Sta parlando dello show con i bambini?
Esattamente. Potrei chiudere un ciclo cominciato trentacinque anni fa con la tv dei ragazzi e che si andrebbe a concludere con i bambini.
Se ne parla da tempo, ma non si è mai concretizzato.
E’ il segreto di Pulcinella, infatti. Sono anni che insisto. Ormai i bambini che avevo coinvolto sono partiti per il militare! Sarei felice di incontrare l’universo infantile, che spesso è più interessante di quello maturo. I bimbi sono privi di preconcetti e filtri.
Un esperimento lo tentò all’interno della Repubblica delle Donne.
Fu uno spin-off. La Repubblica delle Bambine era una prova per comprendere quale fosse la mia tenuta con i più piccoli. L’esperimento si rivelò gratificante. In realtà, lo spettacolo che ho in mente è più complesso, però fu un segnale importante che confermò la mia intesa con i bambini, rafforzata dal rapporto che ho con mia figlia di 11 anni.
Il rischio è sempre quello relativo alla perdita di spontaneità, una volta che comprendono il meccanismo.
Non conosco al mondo cose che siano semplici. Fellini amava ripetere: ‘I più realistici sono i visionari’. I bambini bisogna fare attenzione a non usarli. Con loro si ride, ci si diverte e ci si commuove. Vanno coinvolti e resi protagonisti. Io voglio essere un complice e vittima del loro modo di essere.
Nell’ultimo appuntamento del Maurizio Costanzo Show ha incrociato Fabio Fazio, con cui c’erano stati screzi in passato. Pace fatta?
Io e Fabio abbiamo avuto un avvio di carriera molto simile. Entrambi vincemmo il concorso in Rai e fummo fortemente aiutati da Bruno Voglino. In seguito, le nostre strade si sono ampiamente allontanate, per scelte editoriali e di gusto. In tanti anni non lo avevo mai incrociato, mi ha fatto piacere che si sia ricordato in diretta di quel frammento di vita in comune. Esistono le sliding doors, si prendono delle decisioni che si possono condividere o meno. Non so se approva i miei modi, io vedo i suoi differenti dai miei. Non c’è mai stata la possibilità di confrontarci. E’ stato un incontro piacevole, seppur tardivo.