Old Enough!, su Netflix il magnifico format di cui abbiamo già fatto una terribile versione italiana
Da 30 anni cult in Giappone, Old Enough è ora su Netflix con 20 puntate che ribaltano le certezze occidentali sull’educazione dei più piccoli.
Da qualche giorno è disponibile su Netflix Old Enough!. Non ne avevo mai sentito parlare, cosa che ha generato in me un notevole senso di colpa in quanto appassionata di tv, che si è poi tramutato in vergogna quando ho letto che il programma va in onda in Giappone da 30 anni. Un vero e proprio cult, insomma. Non solo: un vero e proprio totem dell’educazione. Aggiungo che si tratta di uno straordinario modo per avvicinarsi alla cultura giapponese, alla sua società, alla sua visione dell’individuo, della comunità, della partecipazione al benessere della famiglia. Le parole chiave, però, restano responsabilità ed educazione, in ogni senso possibile.
Ecco perché l’idea iniziale era quella di titolare l’articolo con “il magnifico format di cui non vedremo mai la versione italiana“. Le ragioni le spiegherò dopo. Sono, però, dovuta tornare sui miei passi perché non mi era neanche lontanamente passato per la mente che si trattasse del programma cui si era ispirato un pilot andato in onda nel periodo delle Strenne 2007 su Italia 1: parlo di Mi Raccomando, prodotto da Europroduzione e condotto da Federica Panicucci e Dario Bandiera. Una riedizione che tradì profondamente lo spirito del programma, trasformandolo in un varietà che racconta i bambini in quanto buffi non in quanto ‘agenti intenzionali’ (ed esseri umani), in cui si tende più a metterli (anche se con affetto) alla berlina e a prenderli a pizzicotti sulle guance che valorizzarli nella loro crescita. Ecco perché per me Old Enough! è stata una rivelazione e anche una discreta fonte di commozione incontrollata. E mi si conferma l’idea che questo format non lo vedremo mai in Italia per quel che è veramente (e non confezionato da varietà di prima serata per adulti infantili).
Ma cos’è Old Enough?
Il format in sé è molto semplice, sia pure nella sua complessità organizzativa ed emotiva: bambini di età compresa tra i 2 e i 6 anni vengono mandati dai genitori a svolgere un qualche compito, rigorosamente da soli. Che si tratti di portare a lavare il grembiule del papà sushiman nella lavanderia di fronte o si tratti di compiere diverse commissioni dopo aver salito i 202 scalini di un tempio alla ricerca di amuleti e dolcetti tipici, la missione segna il primo passaggio ‘all’età adulta’ dei piccoli protagonisti. E nello stesso tempo segna un passaggio fondamentale nella formazione dei genitori, che per la prima volta lasciano andare i loro cuccioli da soli per il mondo.
Ovviamente il mondo in cui si svolgono le varie puntate è soprattutto quello delle piccole comunità del Giappone più autentico, quelli in cui tutti si conoscono. Quello che è comune anche in gran parte d’Italia, tra piccoli centri e quartieri a portata di ‘occhio’, che almeno fino a 40 anni fa non si faceva molti problemi a mandare i figli a compare il pane dalla lattaia di fronte (e ancora oggi in certe aree, non per questo considerate esemplari).
Nelle 20 puntate selezionate da Netflix – che direi andare dal 2009 al 2018, ma che vedo raccolte nel trailer 2022 sul sito di Nippon Tv – nessuna storia è stata ambientata in una megalopoli. Tutto si consuma tra strade conosciute e volti familiari. E così l’avventura della piccola Miro che si dispera perché non ha trovato subito il negozio in cui ritirare l’orologio della mamma e torna in missione sotto la pioggia battente perché la delusione brucia troppo, diventa una sfida cui partecipa tutto il vicinato, incoraggiandola, supportandola, invitandola a dare il meglio di sé, e senza mai sostituirsi a lei.
Prima che chiamiate i servizi sociali, sottolineamo l’ovvio: il/la bambin* protagonista non è mai davvero da sol* ad affrontare la propria missione. La produzione non lesina inquadrature sulla nutrita squadra di angeli custodi che precedono e seguono la/il protagonista nel suo cammino, con una quantità di cameramen impegnati che non si vede neanche in reality di alto profilo.
E il tocco di classe è che le camere sono ‘mascherate’ da oggetti di uso comune: nel tentativo di ‘mimetizzarsi’ con l’ambiente, gli operatori sono vestiti da elettricisti che portano il loro portattrezzi, da signore che vanno a fare la spesa col paniere, da giardinieri con le loro borse piene di fiori. I piccoli, però, non sono così sprovveduti da non accorgersi che qualcuno li segue o li precede e spesso rivolgono loro la parola, sia pure solo per dare loro il buongiorno o anche per chiedere loro informazioni, come i genitori hanno suggerito loro di fare in caso di difficoltà.
Il format
Come accennato, Old Enough (はじめてのおつかい – Hajimete no Otsukai – La mia prima commissione) è un format ormai cult di Nippon Tv, da trent’anni (30 anni!) in onda nella prima serata della tv giapponese. Tutto nasce da un omonimo libro illustrato per bambini di Yoriko Tsutsui e Akiko Hayashi pubblicato nel 1976, che è stato di ispirazione per il programma. In origine era uno spazio all’interno di un programma informativo – Chase, andato in onda dal 1988 al 1994 – ma ha poi assunto forma autonoma col titolo ‘I’m old enough‘ come programma speciale in onda una volta all’anno (ora due) per 3 ore.
Diciamo, quindi, che il programma ha debuttato nel 1991 e ha una cadenza irregolare – ora in onda per lo più con un doppio speciale all’anno di 2/3 ore, composto da diverse storie da 15′ – e ha un successo costante in ogni fascia, come sottolinea entusiasticamente la scheda prodotto (fino al 26% di share medio), ma è soprattutto un fenomeno culturale. L’obiettivo dichiarato è quello di catturare l’entusiasmo, lo stupore, la bellezza dei bambini che intraprendono la loro prima ‘grande avventura’, tra paure, orgoglio, determinazione e aggiungerei fiducia verso gli adulti.
Il programma è quanto di più lontano da un ‘neonati allo sbaraglio’. Come evidenzia la produzione – e come viene ribadito anche nel corso delle puntate – la missione viene scelta con attenzione sulla base delle abitudini di famiglia e anche in collaborazione con istituzioni pubbliche e associazioni private, dagli asili alle scuole. Il reclutamento avviene, infatti, proprio attraverso le scuole e con controlli rigidissimi, proprio per evitare che qualcuno possa presentarsi a nome del programma e approfittare quindi dei più piccoli e dei loro genitori. Come ha spiegato in un’intervista di qualche anno fa l’allora produttore Gen Iwama, ogni anno vengono somministrati tramite scuole ed asili più di 5000 questionari: dopo una iniziale scrematura, la produzione procede a intervistare singolarmente le varie famiglie. Vengono fatte centinaia di sopralluoghi (circa 300 quelli dichiarati nell’intervista del 2007) e girati fino a 100 puntate, ma solo 7 o 8 vengono portate a termine e trasmesse negli speciali.
Questo perché non solo non tutte le missioni riescono, ma anche perché in sede di sopralluogo ci si può rendere conto che le condizioni ambientali non siano sufficientemente sicure. E così addio alla prima commissione, almeno sotto lo sguardo vigile delle telecamere.
La confezione
Una volta superato lo shock culturale di vedere bambini anche di due anni e 3 mesi che si aggirano per le strade facendo cose, non si possono non apprezzare la realizzazione e i toni del racconto. Tutto è presentato in positivo: la voce narrante offre sempre una lettura incoraggiante di quanto avviene anche nei momenti di difficoltà, perché gli autori sanno benissimo che il programma è visto dai più piccoli e anche da genitori che cercano di capire come educare i propri figli all’indipendenza e alla fiducia in se stessi. In una delle puntate selezionate per Netflix una bimba riconosce – ma non collega, ovviamente – di essere stata chiamata a una missione à la ‘Old Enough!’ e si mostra entusiasta di avere l’opportunità di fare come i bimbi in tv. Ecco, dunque, che ogni momento di difficoltà – e in generale la missione in sé – è raccontata in chiave propositiva. Se ci si aggiungono grafica, colonna sonora ed effetti sonori la quota ansiogena resta solo nei neuroni specchio degli spettatori.
https://www.youtube.com/watch?v=9eMZp8KsZ5k
Altro ingrediente davvero indispensabile per la confezione di questa chicca è la sua durata: ogni storia/puntata dura 15 minuti in tutto, il che rende le tre ore di messa in onda tv – e le 20 puntate disponibili su Netflix – una vera e propria ‘droga’. Va detto che nella versione per occidentali è stata espunta tutta la parte di introduzione, dibattito, ospiti che invece collega le varie storie raccontate. Con questa forma più asciutta diventa difficile smettere di seguire questi piccoli (dall’educazione mozzafiato) nella loro conquista del mondo: 15 minuti costruiti benissimo, essenziali ed efficaci sia nell’intento educativo che in quello intrattenitivo. Si riescono a capire i punti forti e i punti deboli di adulti e bambini, si apprezza la produzione, ci si emoziona per ogni piccola vittoria dei protagonisti e per ogni piccolo inciampo, ci si immedesima nell’ansia e nell’orgoglio dei genitori. E anche chi non ha figli, come me, assorbe tutte le emozioni gioiose, terrorizzanti, divertenti di questi bambini che segui in quello che è il loro primo passo verso la consapevolezza di sé, verso l’autostima, verso l’età adulta. Nello stesso tempo di respira la gioia e lo strazio dei genitori, su cui però la confezione non indugia mai molto: non bisogna far vedere agli adulti e ai bambini quanto sia terrorizzante la missione dei genitori. Tanto più che, ricordiamolo, stiamo parlando di bambini di età compresa tra i 27 mesi e i 5 anni (questa mi sembra l’età massima nella selezione Netflix) che fanno cose che molti occidentali non lascerebbero fare ai figli 14enni.
L’aspetto culturale
E qui veniamo al cuore del programma: il valore culturale del format. L’otsukai – ovvero la commissione – è un aspetto peculiare dell’educazione giapponese e non ha certo la connotazione da ‘telefono azzurro’ che assume per gli occidentali (direi italiani in particolar modo). L’autonomia è un elemento imprescindibile per la formazione dei bambini in Giappone e se ne fa esperienza fin da piccolissimi. Può passare dalla gita segreta organizzata dall’asilo per bambini di due anni – come racconta un’americana rimasta perplessa all’annuncio che il figlio sarebbe stato portato in autobus verso una destinazione non comunicata – al fatto che dai 3 anni sono chiamati a salire sul bus per l’asilo da soli in modo da prendere dimestichezza con i mezzi pubblici che adotteranno fin dalle elementari per raggiungere la propria scuola, a Tokyo come in provincia.
Il sistema educativo fa sì, dunque, che fin dalla più tenera età i bambini siano chiamati non tanto all’indipendenza, quanto al senso di una ‘interdipendenza‘, al fatto che si sia parte di una comunità. Da qui il senso di compartecipazione ai bisogni della famiglia – che è la molla su cui si basa il programma nell’assegnare i compiti – e nello stesso tempo la capacità di muoversi nel mondo sapendo di non essere soli. Il tutto condito da una solida dose di disciplina e di rispetto (l’educazione di questi bambini che a 2 anni ringraziano, si scusano, si rivolgono gentilmente a pari e ad anziani, si mettono a disposizione, aiutano i genitori in casa è tra le cose più commoventi che si possano vedere al momento in tv in Italia) che però sono la base per affinare il senso di responsabilità, di cura per l’altro e per l’ambiente, l’attitudine all’impegno, il senso dell’amicizia, l’importanza della comunicazione e della cooperazione, oltre che la creatività.
In questo senso, Old Enough è illuminante per un adulto, soprattutto italiano: i bambini trovano soluzioni creative a problemi pratici (come portare 5 porzioni di cibo a casa) senza che nessun adulto si sostituisca a loro – e non senza una certa sofferenza da parte di chi incrocia il loro cammino -, e dimostrano di mettere in pratica gli esempi ricevuti. L’immagine del bambino che sulla via di casa, mentre cerca di consolare la sorellina stanca, si ferma, torna indietro di qualche passo e raccoglie una bottiglia di plastica nel bosco perché la mamma lo fa e gli ha spiegato che danno provochi all’ambiente lasciarla a terra vale più di qualsiasi trattato di educazione spicciola pubblicato in Italia negli ultimi 50 anni.
E non è un caso che l’unico adulto che ‘cede’ e accompagna i suoi figli a completare la missione sia un padre neozelandese. Non ce l’ha fatta. I figli alla fine sì.
Perché non lo vedremo mai in Italia
Dicevo in apertura che ero partita dall’assunto che non avremmo mai visto una versione italiana di Old Enough!, salvo poi ricordare – grazie anche all’archivio di TvBlog – che un tentativo di importare il format c’era stato nel lontano 2007 con Mi raccomando, di cui fu confezionato solo un pilota per il prime time di Italia 1. Inutile dire che con il format originale aveva poco a che fare per struttura, tono, spirito, obiettivo. In primis la struttura vedeva gli adulti e il bambino protagonista in studio a commentare con i conduttori il filmato della commissione svolta, che assumeva dunque più i toni della candid camera ai danni del piccolo protagonista più che quelli della solennità di un rito di passaggio. Talk con i genitori, domande al bambino: qualcosa che il format originale possiede – anzi è prevista anche la presenza di ospiti – ma il tono era sicuramente più vicino a un Chi ha incastrato Peter Pan che all’approfondimento sul valore delle azioni svolte, con un tocco più incline a sottolineare gli aspetti eroici/buffi della missione svolta a fini propriamente ludici – per gli adulti – più che strategicamente educativi per adulti e bambini. Insomma, un altro programma, che poco aveva a vedere con lo spirito del format originale.
La scelta del titolo, del resto, era indicativa. “Mi raccomando… fai attenzione!” è l’espressione stessa della preoccupazione. Sì, certo anche dell’affetto, ma soprattutto della preoccupazione. È una messa in guardia dai pericoli del mondo. Quanto di più lontano ci possa essere da un incoraggiamento a svolgere la propria prima missione senza farne un ‘big deal’.
Sono, quindi, convinta che un Old Enough! nella sua essenza profonda in Italia non lo vedremo mai. Basterebbe l’apertura dei casting per far scattare le denunce al Telefono Azzurro a carico dei genitori irresponsabili e interrogazioni parlamentari contro la tv senza scrupoli. Immagino poi la confezione: invece della canzoncina guida Doremifa Daijobu scatterebbero i violini strappacuore; invece della voice over che sottolinea i successi avremmo il dettaglio sugli occhi del bambino smarrito con accompagnamento di genitore che ferma tutto urlando “Addo’ ‘o vulite purta’ o creaturo mio!‘. L’avventura sarebbe declinata nel melodramma, la scoperta del mondo in un thriller, la separazione dai genitori in un addio straziante degno di una fiction à la Pupetta.
La sensazione è che a non essere maturi per un programma del genere siano gli adulti. Culturalmente impreparati.
“Attraversare la strada da soli non è certo un bell’esempio, mettergli in mano 50 euro neppure. Infatti dopo ogni filmino scatta la raccomandazione di non seguirne le prodigiose gesta: «Cari bambini, se guardando queste scenette vi fosse venuta la voglia di uscire di casa da soli, mi raccomando non fatelo», deve ripetere continuamente la conduttrice”
scriveva Norma Rangeri recensendo Mi Raccomando su Il Manifesto. E di certo una versione italiana del programma calata dall’alto, senza un contesto adeguato e peraltro stravolta nell’intento, rischiava di far peggio. Ma nel suo commento al programma, la Rangeri evidenzia – senza volerlo, probabilmente – proprio quanto sia opposta la prospettiva culturale ed educativa tra format originale e contesto di arrivo:
“In sostanza devono uscire di casa, anche se hanno quattro anni, per andarsi a comprare il grembiule. Non è un bel vedere, se non per mamma e papà che guardano pieni di soddisfazione i loro pargoletti proiettati sul grande schermo dello studio televisivo, conquistando per la famigliola i famosi cinque (sic!) minuti di celebrità“.
Un commento che da un lato ribadisce quanto inadeguata fosse la struttura e dalla confezione della versione italiana e dall’altro quanto si sia lontani da un modello educativo che spinge alla sperimentazione e che rende il mondo una risorsa e non un luogo ostile. Ci vorrebbe un ribaltamento di prospettiva per fare una cosa del genere in Italia.
Ecco perché, in sostanza, difficilmente riusciremo mai a vedere bambini italiani di 3 anni e mezzo che vanno a recuperare le medicine per la sorellina malata, che portano buste della spesa più pesanti di loro, che vanno in pescheria a farsi tagliare il pesce per il sashimi (scoprendo così che in origine le ‘fette’ si muovono, hanno una testa e pesano), il tutto senza che nessun adulto si sostituisca a loro in modo da vedere come se la cavano, sia pure in contesti protetti come quelli dei piccoli centri. I pericoli ci sono ovunque e i bambini protagonisti sono controllati a vista, ma loro non lo sanno. Ed è questo un punto che viene quasi dimenticato.
Per i nostri standard, situazioni come quelle affrontate dai protagonisti rientrano nel novero delle esperienze traumatizzanti; immaginiamo che non siano passeggiate di salute neanche per i piccoli giapponesi, anche se non ho dati scientifici per affermarlo e anche se fa parte della loro formazione, con o senza telecamere. E a proposito di telecamere, narrativamente offre un mix di strazio e di orgoglio, di tenerezza e di magnificenza che pochi altri programmi riescono ad offrire ed è in grado di scatenare in 15′ tutte le sfumature della commozione e dell’emozione.
Dell’originale giapponese ne è già in onda una versione di Channel News Asia e sembra sia in preparazione una versione inglese. Non so se sia possibile immaginare una via di mezzo che soddisfi gli standard occidentali e renda il tutto ‘accettabile’ per i genitori/adulti italiani. Penso solo che esercitare altri punti di vista osservando comportamenti diversi dai nostri – senza per questo che vengano adottati pedissequamente in contesti inpportuni – sia un esercizio magnifico. E penso anche che vedere questi bambini affrontare il mondo ‘da soli’ sia una lezione bellissima, soprattutto per gli adulti.