Non ti pago, la trilogia De Angelis-Castellitto è finita: andiamo in pace
La versione di Non ti pago di De Angelis – Castellitto è andata: una tentata farsa che cancella Eduardo (e il problema non è il pappagallo)
Non ti pago doveva essere la conclusione della ‘prima’ trilogia Picomedia firmata da Edoardo De Angelis, con Sergio Castellitto protagonista, e doveva andare in onda nel dicembre 2021. Le critiche al secondo titolo realizzato e trasmesso – Sabato, domenica e lunedì, con la quale questa trasposizione ha molto in comune – convinsero chi di dovere ad aspettare un po’ prima di trasmettere l’ultimo capitolo. L’attesa è durata due anni, ma era ormai tempo di ‘rilasciare’ questa terza opera e così Rai 1 ha deciso di iniziarci il 2024, o quasi.
La pratica è stata quindi espletata e ne siamo contenti: almeno questa trilogia è finita. Il problema? La lettura e l’interpretazione del testo da parte di regia e protagonista.
Ferdinando Quagliuolo fa la faccia del pazzo…
Edoardo De Angelis ha voluto rinfrescare la scena e si può dire anche che si sia riuscito con la sua fotografia accesa, i colori strabordanti, l’overstatement diffuso. Esattamente il contrario della scena di Eduardo, che nella scrittura e nella resa scenica ha sempre puntato all’essenziale, mettendo al centro i protagonisti e i propri tormenti declinati in chiave tragicomica, se non solo tragica. Si dirà che quello di De Angelis “è cinema”, non teatro, ma se pure fosse – perché invece la marca teatrale è ben ricercata nella scelta del cast non protagonista – il punto non è rivestire Eduardo di nuovi colori – ben venga – ma non appiattire il suo messaggio, nasconderlo dietro ad effetti speciali che mascherano l’assenza della complessità della sua opera e dei suoi personaggi. Questa non arriva sul palco/schermo.
In questa versione di Non ti pago, il problema non è il pappagallo, non è la banda di musica, non è il baccanale finale.
Il problema è cercare la farsa, è appiattire il protagonista in una pseudo-follia che non è di quest’opera, è rendere la musica odiosa, fastidiosa, disturbante (uno dei tratti condivisi appieno con Sabato, Domenica e Lunedì, peraltro).
Il problema di Castellitto è che non ha due corde, ma solo una. Sempre uguale. Non è credibile, non riesce ad esserlo e non perché non sia uno straordinario attore, ma perché questo è teatro e lui non esce dal ‘suo’ personaggio in maniera convincente. Del teatro non agguanta i tempi, della commedia non ha lo scatto richiesto. A peggiorare la situazione c’è il resto del cast che invece mostra a lui e al pubblico la via del palcoscenico: Mario Bertolini è portato in scena da Gianluca Di Gennaro con una spavalderia che serve a polarizzare lo scontro, ma dall’altra parte c’è un muro di gomma; Maria Pia Calzone dà il senso della superiorità con una sola alzata di sopracciglio della sua donna Concetta; il Maurizio Casagrande di Don Raffaele Console restituisce lo spirito di quella Napoli tratteggiata da Eduardo, così come l’avvocato Strumillo di Giovanni Esposito ha i tempi giusti per illustrare l’assurdità della causa sui sogni.
Assurdo sì, follia no.
Il personaggio di Aglietiello, affidato a Giovanni Ludeno, ha assecondato la linea ‘folle’ di De Angelis con il suo essere esteticamente sopra le righe: ma chi gioca al bancolotto non è un pazzo, né nella ‘cultura napoletana’ – per la quale ha tanti valori, dalla ricerca della ricchezza alla sfida alla (mala)sorte – tantomeno nel disegno di Eduardo. Ferdinando Quagiuolo cerca l’affermazione sugli altri, vuole che sia riconosciuto l’essere il ‘capo’ del bancolotto e della famiglia, ma questo ruolo gli sfugge dalle mani sia sul lavoro, perché uno dei suoi dipendenti ha più fortuna (e vincite) di lui, sia in famiglia, dove sente di non contare nulla neanche sul destino della figlia Stella, che la moglie ‘trama’ per far sposare proprio con la causa della sua ‘debolezza’, Mario Bertolini. L”affronto finale’ è nel sogno: si sente scavalcato anche da suo padre, che dà i soldi a un ‘picciri” non meglio identificato. E qui scatta la rivolta, non la follia, di don Ferdinando: non può accettare che ‘tutto’ gli sia tolto. E qui sta il senso stesso dell’opera eduardiana
In questa versione manca il senso di Eduardo
Il conflitto interiore, la dualità tra essere e dover essere, lo scontro di ‘classe’, insomma la dicotomia del protagonista e dell’ambiente che lo circonda (che spesso nelle sue opere prende la forma della condanna dell’ipocrisia) è uno dei tratti distintivi dell’opera di Eduardo. Il voler rendere don Ferdinando quasi una macchietta (ma in perfetta dizione, eh, non sia mai scappi una ‘o’ troppo aperta o una ‘e’ troppo chiusa) lo spoglia di tutto il senso del suo conflitto, con sé e con la società che lo ‘prende per pazzo’, ma che pazzo non è per niente. Anzi.
Anche l’aver trasformato i notai Frungillo, che accusano Quagliuolo della morte del loro cane (scena che disegna la difficile coesistenza di ‘due’ Napoli, quella ‘upper class’ e quella popolare), nelle ‘sorelle’ Frungillo dai tratti un po’ isterici ne svilisce la funzione.
Non è un condominio di ‘pazzi’ quello della famiglia Quagliuolo. In questo senso si perde anche il motivo per cui alla fine don Ferdinando acconsente a pagare la vincita: non si capisce. All’improvviso, tra un “POROMPOMPO'” e un “non-ti-pago” al piano, tra un trenino e un brindisi quasi orgiastico, don Ferdinando capitola. Perché? Mah. Saranno stati i fumi dell’anice di Don Raffaele…
Insomma, non basta ‘smarmellare’ tutto per fare cinema e non basta chiamare ottimi attori per avere un’opera all’altezza. Le interpretazioni possono essere tante ed è giusto che sia così (cfr. Filumena Marturano, la migliore finora, o Napoli milionaria, che soffre comunque di mali comuni), ma se si perde il senso stesso dell’opera eduardiana non se ne sta facendo una trasposizione (per cinema o per la tv, anche se con De Angelis non si capisce bene la direzione), ma una ‘riduzione’ per pubblici che forse non vengono considerati all’altezza del suo lavoro. E dire che Eduardo scriveva per tutti. Anche questa è una lezione persa…