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Non è la frenesia del momento, è una scelta

La morte in diretta, i media e altre storie. La scelta giornalistica di non pubblicare

pubblicato 27 Agosto 2015 aggiornato 2 Settembre 2020 11:32

Uno potrebbe dire: è la frenesia del momento. Bisogna coprire la notizia, “live”, adesso, in ogni modo possibile. D’accordo, sì, può anche essere. Ma l’insieme delle homepage che ha sfoderato ieri (e che sfodera ancora oggi) il giornalismo italiano fa capire che, in realtà, si tratti di una scelta ben precisa.

Possibile che un evento di cronaca nera (perché di questo si tratta) sia davvero la notizia più importante di tutto quel che è successo ieri nel mondo? Possibile che si dovesse comporre una homepage quanto più d’impatto possibile, con i fotogrammi del volto di una delle due vittime deformata dall’orrore, la soggettiva con pistola tratta dal video che il killer ha ritenuto di fare?

Il riferimento, ovviamente, è all’uccisione di cameraman e reporter di ieri, in Virginia.

È vero, c’era la morte in diretta. Un tentazione quasi irresistibile. E c’erano i video. Su Blogo, dopo una veloce consultazione in redazione, abbiamo deciso di non inserire nel nostro pezzo nemmeno quello mandato in onda dalla rete televisiva che stava trasmettendo le immagini del servizio. Figurarsi quello in soggettiva.

La scelta di non pubblicare il video, in Italia, è stata condivisa da pochi. Lo ha fatto SkyTg24, per esempio.

Altri, la maggioranza, no. E sulle testate online era il festival delle homepage “shock”, dei video-foto-clicca.

Qualcuno, si legge su Twitter – ammetto che per lungo tempo non ho avuto cuore di vedere il video “in soggettiva” sulle varie testate, quindi non posso confermare – aveva addirittura lasciato attivi i “preroll” (cioè, i filmati pubblicitari che precedono i video). Quando li ho guardati io, su Repubblica, Corriere, Fatto Quotidiano, le pubblicità non c’erano più e c’erano anche fotogrammi neri al posto degli spari. Non so dire, però, se fossero stati “sistemati” dopo. Il Giornale ha ritenuto anche di dover specificare che lo sparatore era afroamericano.

Quel che appare interessante è che, salvo poche eccezioni, non si avverte la necessità del dibattito, in Italia.

Su Facebook, una conversazione in merito si sviluppa, per esempio, sul profilo di Arianna Ciccone.

Ci vuole più coraggio, dignità e professionalità a non pubblicare il video di una morte in diretta, credetemi. Da come…

Posted by Arianna Ciccone on Wednesday, August 26, 2015

Arianna, poi, approfondisce su Valigiablu, con un’ampia rassegna delle scelte fatte all’estero: lettura consigliatissima, anche per rispondere alle obiezioni tipo: «sì ma allora è censura».

Quale può essere il motivo (giornalistico, editoriale, altro?) per comporre homepage come quelle che vediamo qui e per pubblicare i video? Proviamo a immaginare.

Fare traffico? No, perché si fa traffico anche parlando della notizia.
Fare visualizzazioni video? In quel caso avrebbe un senso, soprattutto se si mantiene il filmato pubblicitario in testa, diciamo. Ma quanto si può “guadagnare” da un video di cronaca? E davvero si deve “monetizzare” anche un evento simile in quel modo? Il New York Times, per esempio, ha un sistema di tag che fa in modo che su determinati articoli e eventi, indicati in maniera opportuna (da esseri umani, ovviamente) non possano apparire pubblicità. Lo chiamano “ad sensitivity”. È una semplice riga di codice, che può capire anche un profano: . Niente annunci pubblicitari se c’è un tema delicato.
Tanto più che qualsiasi grande testata può tranquillamente rinunciare a un picco di visualizzazioni video, nel nome di una scelta giornalistica.
Offrire un servizio al lettore? Questo può essere l’unico tema da prendere in considerazione, a mio modo di vedere. E qui si entra realmente nel campo della scelta. Le immagini sono realmente un valore aggiunto? Danno altre informazioni alla storia, arricchiscono la copertura della notizia? Offrono un servizio al lettore? A tutti i lettori? O forse a quella nicchia (numerosa finché si vuole) che avrà voglia di vedere integralmente un video simile (e che potrà facilmente trovarlo da sé)? L’opinione condivisa, in Blogo, è che quelle immagini non aggiungano nulla alla notizia. E che sia – come scrive Ciccone – una precisa scelta giornalistica quella di non pubblicare.
Molto tempo fa, da Timisoara, vennero mandate in onda, ossessivamente, le immagini di alcuni cadaveri riesumati per raccontare una delle più colossali bufale giornalistiche della storia: il “massacro di Timisoara”. Lo scrivo per dire che l’esistenza di “immagini video” non è affatto la prova della veridicità. Qui, in questo caso, l’omicidio c’è stato. Ma se non ci fosse stato il video – da esibire morbosamente e senza alcuna necessità giornalistica, perché il punto è che non ce n’era proprio bisogno. Non c’è bisogno di amplificare l’orrore – questa non sarebbe mai stata una notizia da taglio alto, ma sarebbe stata da cronaca locale. La notizia è la dinamica, dunque, non soltanto l’omicidio in sé, ma il fatto che sia stato ripreso e diffuso in diretta. Benissimo, accettabile: è una cosa che si può raccontare senza pubblicare il video stesso. Esiste il video, è stato diffuso socialmente.

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Poi, sui cartacei, succede che la colpa va ai meccanismi social (mentre Twitter e Facebook hanno bloccato gli account dello sparatore, per dire). Guardare per credere. Il Corriere titola, internamente, «La ferocia social». Firma Aldo Grasso. Dice cose anche condivisibili ma, sempre a mio modo di vedere, non centra il punto, evitando di parlare della scelta giornalistica. E lo fa mentre il Corriere cartaceo, in prima pagina, ha il fotogramma del momento in cui parte lo sparo dalla soggettiva quasi videoludica.

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D’altro canto, mentre scrivo, Il Messaggero ha ancora, nell’angolo in alto a sinistra, un fotogramma con questa descrizione: «PATRIGNO KILLER La compagna dorme, lui getta in piscina la figlioletta: morta annegata Video choc». Quindi, di cosa ci meravigliamo?

È una scelta, non è la frenesia del momento.