Nello Trocchia a TvBlog: “Ogni 15 giorni una querela, ma non mi fermo. Per la tv raccontare la mafia non è una priorità”
Nello Trocchia presenta Mafia Connection, i nuovi documentari in onda su Nove: “Parlare di questi temi porta rogne, ecco perché i talk non se ne occupano”
Nello Trocchia, la sua vita quotidiana me la immagino tra querele, Procure e tribunali…
Il giornalista ha il telefono sempre acceso, incontra persone, gira, verifica le notizie, fa il suo dovere. Niente di eccezionale. Certo, ormai la media per me – ma non è una lamentela – è una querela ogni 15 giorni. Da parte dei Poteri c’è un forte astio nei confronti della libera stampa. La querela temeraria, con richiesta di risarcimento, è all’ordine del giorno. Io sono fortunato perché al giornale (scrive per il quotidiano Domani, Ndr) e in tv mi vengono forniti degli avvocati. Evidenzio, però, una distanza tra la predica del potere politico sull’importanza della libertà di informazione e la pratica legislativa: si attende da un ventennio una legge contro le querele temerarie. La libera stampa non fa comodo ai politici, ma è fondamentale affinché i liberi cittadini possano conoscere e deliberare in tutti i contesti della loro vita.
Nello Trocchia parla a pochi giorni dal suo ritorno in tv con Mafia Connection, quattro docu-inchieste in onda dal 24 settembre alle 21.25 su Nove, dove avevano trovato ospitalità anche i due documentari sui Casamonica. In Mafia Connection il giornalista farà da guida in un viaggio che tocca Campania, Sicilia, Puglia e si spinge fino in Albania, ricostruendo la storia dei boss e dei clan più feroci, svelando le nuove gerarchie delle organizzazioni criminali che hanno deciso di fare la guerra allo Stato. La serie, i cui autori sono Marco Carta Lorenzo Avola e Lorenzo Giroffi e il cui montaggio è curato da Lorenzo Loi, Simone Mele e Emanuele Svezia, è ideata da Carmen Vogani e prodotta da Giulia Cerulli per Videa Next Station.
Ha iniziato come inviato a La Gabbia, poi a In Onda e Piazzapulita sempre su La7, ma anche a Nemo su Rai2. Più di recente è stato ospite a Non è l’Arena di Giletti.
Sì, ho iniziato come collaboratore a pezzo dei giornali, come Il Fatto Quotidiano, poi ho avuto contratti stagionali con la tv. A La Gabbia ho portato avanti la battaglia contro i vitalizi ai condannati in via definitiva. Rivendico con orgoglio di aver acceso un faro su questa che era una indecenza.
Mi racconta la sua reazione dopo la prima causa civile?
La prima causa civile l’ho subita da parte di un magistrato rinomato e premiato, indicato come paladino della legalità e della lotta alle ecomafie. Raccontai quello che emergeva da alcuni elementi raccolti e riscontrati. Non ebbe piacere di quello che scrissi, avevo 26-27 anni, ero totalmente precario, mi chiese 250 mila euro. Ebbi la tutela legale, ma sinceramente non passai belle notti. Quando arrivano querele temerarie o minacce da ambienti criminali ti chiedi se stati facendo bene, se sei all’altezza, se è giusta la strada che stai percorrendo, se non sia meglio occuparsi di altro. Ma questa è la strada che ho scelto, sin da piccolo. Vengo da una zona, quella di Napoli, che è stata martoriata dai poteri criminali mafiosi. Ho una responsabilità, un patto di fiducia da mantenere: occuparmi delle cose che riguardano le persone, chi non ha voce e il territorio. Vado avanti in questo modo anche perché per me non esiste un altro modo per fare informazione.
Nello Trocchia è un volto televisivo o un giornalista prestato alla tv?
Io mi sento un cronista. Racconto i fatti, provo a portare alla luce questioni che vengono nascoste. Faccio il cronista quando scrivo su Domani, faccio il cronista quando sono in tv. La televisione per me è uno strumento per raccontare. Mi capita di essere fermato per strada, ma io non dimentico mai che il lavoro televisivo è un lavoro di squadra che permette di tradurre la complessità dei fenomeni criminali. E comunque l’importante non è essere riconosciuto come volto televisivo, ma per il modo di fare informazione. Pippo Fava – un gigante – diceva che il buon giornalismo può evitare tragedie, che il buon giornalismo sveglia il sonno della politica e dell’opinione pubblica. Questa è la nostra missione.
Il linguaggio dei suoi documentari mescola il linguaggio cinematografico ad un racconto con sfumature pop.
È così, e lo è proprio grazie al lavoro di squadra di cui parlavo poco fa. Il nostro sforzo è non soltanto tenere nei documentari gli episodi scioccanti che avvengono – gli inseguimenti e le aggressioni, per esempio – ma anche di far sedere tutti: i buoni, i cattivi e i grigi – perché il colore della mafie è il grigio, è la neutralità. Noi proviamo a farli sedere e a chiedere loro tutto. Inchiesta significa inquisire, chiedere, domandare. I nostri documentari incrociano i linguaggi, c’è l’intervista, c’è il giornalista – non sempre io – che va sul territorio, ci sono i documenti esclusivi – intercettazioni o testimonianze, c’è il narratore che entra in campo che sbroglia la matassa e scioglie complessità.
Prima ha citato Pippo Fava. Quali sono i modelli televisivi a cui si rifa nei suoi documentari?
Joe Marrazzo è un gigante del racconto televisivo anche dei poteri. È impossibile replicare un gigante, ma ti permette di capire e di correggere gli errori, perché il nostro lavoro è un continuo limitare gli errori. E poi mio padre in televisione guardava Michele Santoro e i suoi grandi racconti dei poteri criminali mafiosi. Che la televisione si occupi di questi temi, di chi sta devastando il territorio e ipotecando il futuro è un contributo importante. Perché così i territori si sentono meno soli. Perché così rompi l’agenda setting che è costruita dal rapporto incestuoso tra politica e mainstreaming informativo. Perché così provi a sollecitare risposte. A Vieste, nel Gargano, sono stato aggredito – lo si vedrà in una puntata – ma il punto è che lì le telecamere non ci vanno. Quindi, per rispondere alla domanda: per noi Marrazzo e Santoro rappresentano un paradigma, ma poi proviamo a usare un linguaggio più composito.
La tv italiana si occupa troppo poco dei fenomeni criminali e mafiosi?
Sì. Per la tv raccontare le mafie non è una priorità.
Neanche per il servizio pubblico?
I miei documentari vanno in onda su Nove – che crede nel mio lavoro. Immagino che il servizio pubblico li abbia visti… non ho avuto alcuna interlocuzione, né proposte dal servizio Pubblico. È legittimo. Nel servizio pubblico ci sono ottimi professionisti che si occupano anche di mafia. Ma lo fanno 2-3 volte l’anno, non c’è una attenzione continuativa. Penso comunque che Nove abbia la possibilità di parlare ad un pubblico popolare. L’idea di provare ad occuparsi di fenomeni criminali complessi traducendoli in un canale privato attraverso un linguaggio pop è esaltante. E, per il momento, ha portato risultati.
I palinsesti sono pieni di talk show che durano ore e ore. Eppure anche lì il tema delle mafie e della criminalità sembra marginale. Come mai?
È una domanda da porre ai conduttori. Da cronista posso dire che il livello di penetrazione delle organizzazioni mafiose nel tessuto economico del Paese e il fardello che rappresentano per le future generazioni e per i territori non è messo in luce dai programmi di approfondimento dove talvolta si assiste a lunghissime chiacchierate di giornalisti che parlano sopra altri giornalisti. Una soluzione molto meno complicata di occuparsi di mafie. Perché occuparsi di mafie è una rogna, significa dedicare tempo e avere conseguenze in termini di incolumità personale e nei rapporti con gli ambienti imprenditoriali e politici. Ripeto: c’è una sproporzione tra il potere del condizionamento futuro e presente delle mafie rispetto al racconto che se ne fa in tv. E questo nessun conduttore può smentirlo.
Vale anche per questa campagna elettorale?
Certo. Ho sentito parlare spesso della tenuta democratica del Paese, ma poco di opacità nelle liste, di candidati verso i quali bisognerebbe fare chiarezza e di punti programmatici sul contrasto alla criminalità mafiosa. È il tema rimosso. Perché è rimosso? Bisognerebbe chiederlo a chi fa la televisione meglio e molto più di me.
La mafia è anche nel mondo della televisione?
La domanda è molto generica. Che in passato vi siano stati riscontri in questo senso rispetto alla realizzazione di film e di fiction è oggettivo e me ne sono anche occupato. Il mondo dello spettacolo – come tutti i mondi in cui girano i soldi – è interesse dei poteri criminali. Ma questo non significa che si possa dire che nella televisione c’è la mafia. Sarebbe una risposta banale e io non voglio darla.
Mafia Connection di Nello Trocchia su Nove: le quattro inchieste: anticipazioni
Si parte sabato 24 settembre con I NARCOS ALBANESI: businessmen insospettabili e killer spietati: sono questi i marchi di fabbrica dei criminali albanesi. Al centro di tutto, la droga.
I narcos albanesi sono i competitor della ‘Ndrangheta nel mercato della cocaina e i principali rifornitori di marijuana in tutta Europa. Per fare il salto di qualità definitivo, poi, hanno puntato dritto alla terra promessa di tutti i narcotrafficanti: il Sud America. Narcotraffico, omicidi e una ricchezza che ostentano senza scrupoli. Ma quali sono le ragioni che hanno portato a questa ascesa? E soprattutto si può parlare di vera mafia albanese?
Sabato 1 ottobre è la volta di PUGLIA SOTTO ATTACCO; bombe che scoppiano una dopo l’altra, imprenditori assoggettati alla strategia del terrore e vittime innocenti finite al centro di una sanguinosa sfida tra clan. La ferocia delle mafie foggiane costringe l’Italia ad aprire gli occhi: in quella porzione di Sud esiste la mafia. Una mafia talmente poco conosciuta che in molti pensano che non abbia un nome. I media la chiamano “Quarta mafia” per distinguerla dalle altre, per tutti ormai è un caso unico, un’emergenza nazionale, ed è finalmente arrivato il momento di rispondere a una domanda: l’attacco delle mafie a Foggia, era davvero imprevedibile?
Si prosegue sabato 8 ottobre con I SIGNORI DELLA CAMORRA, la docu-inchiesta sulla famiglia Moccia che, per alcuni, è composta da uomini d’affari dal passato ingombrante, per altri, invece, da camorristi ancora in attività, che agiscono nell’ombra e governano un esercito di affiliati dalla Campania al Centro Italia. Quello che è certo è che Moccia è un cognome che continua a incutere timore. Nel 2022, i Moccia possono essere considerati un clan del passato? E se il loro attuale basso profilo, invece, fosse il frutto di una precisa strategia?
Il ciclo si conclude sabato 15 ottobre con CACCIA ALL’ULTIMO PADRINO. Matteo Messina Denaro è in fuga dal 2 giugno 1993. Da quel momento, del boss di Castelvetrano si è persa ogni traccia e ha avuto inizio una rocambolesca caccia all’uomo. Catture mancate per un pelo, depistaggi e oscuri intrecci fra servizi segreti, mafia e massonerie. Oggi, a distanza di quasi trent’anni, il mito del boss imprendibile persiste e il nome di Matteo Messina Denaro continua comparire nella lista dei latitanti più pericolosi al mondo.