Morti e Stramuorti, su Explora la morte si fa routine (persino a Napoli)
Morti e Stramuorti racconta le giornate della famiglia Dell’Anno e cerca di sfatare le superstizioni sugli ‘schiattamuorti’. Ma la noia impera, persino a Napoli.
Morti e Stramuorti, la serie ‘made in Napoli’ targata Explora (Sky, 415), ha debuttato lo scorso 24 dicembre nella curiosità generale: non era mai capitato che si raccontasse la vita di un’impresa di onoranze funebri nella tv italiana. Per farlo si è adottato il modello de La morte ti fa boss, serie UK in onda il mercoledì in prima serata sempre su Explora, e si è cercato di giocare la carta della ‘famiglia napoletana’, nel settore da 5 generazioni, affermata sul territorio e piena di personaggi. La scelta è quindi caduta sulla Famiglia Dell’Anno e sulla loro florida impresa con tre sedi (San Giovanni a Teduccio, Barra e Portici), ampio mercato, numerosa prole e nipotini pronti a prendere in mano le redini della ditta di famiglia.
Voce narrante Massimiliano Dell’Anno, figlio ‘mediano’ di papà Umberto: è lui a raccontare le gesta del fratello maggiore Francesco e del fratello minore Mirco e di tutta la ‘famiglia’ allargata ai dipendenti della ditta, da Antonio ‘o Jolly ad Aziz O’ Marocchino, da Valentina la segretaria a Federico O’ Caposquadra, passando per Gabriele e Lello ‘o bello, principali esponenti di una categoria a me finora ignota, lo ‘schiattamuorto’ sciupafemmine.
Le donne della famiglia sono destinate alla cucina e alla cura della dinastia, secondo il più classico schema patriarcale. Il protagonismo corale garantisce, sulla carta, una certa varietà di storie da raccontare. Peccato che in Morti e Stramuorti manchino le due protagoniste principali: la morte e Napoli.
La morte è sostanzialmente assente. Come immaginabile, visto il tema e l’ambientazione, il dolore resta lontano dalle telecamere. La morte compare solo nei manifesti dei ‘clienti’ e nella preparazione del ‘servizio’. Ma la ‘clientela’ non c’è: tutto quello che fa la vera ‘tradizione’ delle esequie napoletane resta segreto. Comprensibile vista la delicatezza della materia. Ma questo toglie al racconto la sua componente fondamentale e cancella dalla storia il suo punto di forza, ovvero Napoli e i napoletani.
Quando Napoli fa capolino è tutta un’altra storia: la si vede comparire nella difficoltà di recuperare un feretro ai Quartieri Spagnoli, tra i suoi vicoli e le sue ‘scale appese’. E quando la necessità porta a trasportare la bara in verticale, per via della mancanza di spazio, il commento di Antonio rivela parte della vera essenza di questo mestiere a Napoli:
“Abbiamo portato la salma in verticale. Abbiamo chiesto scusa alla famiglia, ma loro ce l’hanno detto che non dipende da noi, che non è colpa nostra… Alla fine è il risultato è quello che conta… facciamo il funerale con molta garbatezza…”.
E personalmente in quello ‘ho chiesto scusa alla famiglia’ vedo tanto di Napoli e del suo rapporto con i defunti.
La città vien fuori poi da qualche ‘confessionale’ di Massimiliano:
“Qui a Napoli si ama molto apparire. Quanto più possono apparire più lo fanno. Padre Pio, angioletti, e Cristi, e madonne… quanto più possono mettere più mettono. (…) C’è sempre chi deve superare gli altri, anche nell’ambito cimiteriale…”.
E qui percepisco l’altra faccia de Il Boss delle Cerimonie. Il desiderio di apparire e di superare gli altri è lo stesso. Cambiano le modalità. E se al Castello di Don Antonio Polese sono proprio i clienti il punto forte, con le loro richieste, le trattative, le esigenze da risolvere all’ultimo minuto, qui tutto questo non c’è se non per ‘interposta persona’. Capire come si arriva a una lapide con “cristi, madonne e angioletti” o a una bara con Padre Pio intagliato darebbe un senso al racconto e soprattutto alla sua ambientazione napoletana. Ma non c’è. Tanto varrebbe ambientarlo a ‘Camposanto sul Monte’…
Alla fine il tutto si riduce in una lunghissima ora, piena di riempitivi, che si divide tra qualche cassa da allestire, qualche campionario da ordinare, qualche fornitore da strigliare, qualche ‘servizio’ da fare. Una monotonia noiosa, una vita scandita da procedure rodate, nella quale una cremazione a Domicella e un feretro da consegnare ad Amalfi (ma senza neanche mostrare la difficoltà di trasportare la salma per 400 scalini tra vicoli e strettoie per raggiungere il camposanto della Repubblica Marinara) diventano occasioni di svago.
“Quando vai all’impianto di Domicella proprio ti rilassi… esci fuori dallo stress della città. Io seguo la cremazione da un monitor per motivi di sicurezza, ma tutto questo è un momento per rilassarti… E poi con la mia urna sottobraccio me ne torno a Napoli…”.
Ovviamente ognuno si rilassa come può.
Tutto quindi si risolve nella ‘routine’ dello schiattamuorto, senza ‘passione’, senza ‘calore’, senza niente da mostrare se non se stessi. Penso sia stata proprio questa la difficoltà in scrittura e penso che proprio per questo un’ora sia davvero ingestibile da portare avanti. Sempre che nelle prossime puntate non ci sia di fatto qualcosa da raccontare.
Non potendo mostrare funerali e trattative, l’azione è tutta ‘ricostruita’. I momenti migliori sono legati al rapporto tra il piccolo Lorenzino, figlio di Massimiliano e prossima generazione di Dell’Anno, e il nonno e alla coppia Lello-Massimiliano. Buone potenzialità le offre anche Gabriele, con il suo fare da latin lover. E anche Aziz potrebbe aprire interessanti spiragli per il racconto della tradizione funeraria musulmana a Napoli. La contaminazione incuriosisce.
Il colpo di genio di questa serie è la consulente per il personale, la psicologa di sostegno per affrontare il dolore. Le scene che la riguardano sono davvero esilaranti, almeno per me. Mi sembra talmente tutto così artificioso da rasentare la parodia.
La vera tristezza, però, non sta nelle lapidi, nei manifesti, nella morte ‘sfiorata’, nel dolore che resta invisibile: è tutta nella solitudine di Susi, la moglie di Massimiliano, che resta 10 ore a vegliare il ragù. Immagino dovesse essere un fil rouge ‘disimpegnato’: alla fine per me è il momento più indigesto del racconto. Roba da suicidio di massa. Da arresti domiciliari, da condanna perpetua, da vita eterna…
Beh, potenzialità tante, ma a mio avviso mal sfruttate. Almeno non in questo ‘pilot che anticipa la serie, in onda nella primavera 2015. Magari la chiave dell’ironia emergerà con maggior nettezza. Più che ironia, c’è una quotidianità che infastidisce chi non la vive e chi la guarda con ‘sospetto’: la mangiata di spaghetti tra le bare incellophanate, il bambino che gioca con le bare giocattolo o con le autofunebri anni ’50, la segretaria che ordina i gadget a forma di ‘tavuto’, alla fine mi fanno venire in mente i protagonisti di Porno – Un affare di famiglia e le annesse reazioni del pubblico. Tabù quello, tabù questo. Eros e thanatos. Una quotidianità vissuta davanti alle telecamere per mostrare la ‘banalità’ della morte e combattere i radicati pregiudizi su becchini e affini.
Come detto Il modello è quello de La Morte ti fa Boss, di Don’t Drop The Coffin, in onda dal 2003. Probabilmente non siamo ancora pronti per un Boss dei Funerali (Funeral Boss) o per un Best Funeral Ever, entrambi programmi TLC e incentrati proprio sui servizi funebri oltre che sulla gestione degli ‘affari’. Ma non dobbiamo essere pronti per forza eh…
Nel frattempo, come direbbe Totò, “Esequie, esequie distinte…”.