Home Notizie Michele Misseri a Matrix – L’uso disinvolto della parola “verità” e il trionfo della neolingua

Michele Misseri a Matrix – L’uso disinvolto della parola “verità” e il trionfo della neolingua

La confessione di Michele Misseri a Matrix.

pubblicato 23 Novembre 2011 aggiornato 5 Settembre 2020 01:43


Michele Misseri a Matrix
Michele Misseri a Matrix
Michele Misseri a Matrix
Michele Misseri a Matrix
Michele Misseri a Matrix

Michele Misseri a Matrix è il punto più basso della storia dell’approfondimento e dell’informazione sulla cronaca nera in Italia. E ne abbiamo viste tante: telecamere e microfoni puntati a sciacallare un po’ di dolore, plastici, speciali, interviste di ogni sorta, ricostruzioni fantasiose, tifo contro o tifo pro, docufiction. Forse dovremmo ricordare cosa sta andando in onda, per capire perché.

Sta andando in onda un uomo che dice di aver ammazzato sua nipote e di aver poi incolpato sua figlia e sua moglie dell’omicidio perché qualcun altro gli avrebbe suggerito di dire così. Un uomo che dice che avrebbe ammazzato sua nipote per un colpo di caldo e perché il trattore non gli partiva, intervistato da un giornalista in uno studio televisivo, mentre la moglie la figlia sono sotto processo per l’omicidio, visto che il gup non ha creduto all’autoaccusa. E ora, quell’uomo va a raccontare di aver ucciso sua nipote – perché è così o perché vuole difendere moglie e figlia non si sa – in televisione.

Ecco, ne abbiamo viste davvero tante. Ma questa mancava all’appello. Alessio Vinci accoglie Misseri in studio e lo fa parlare. Lo fa confessare il delitto, gli fa raccontare questa sua versione dei fatti (ovvero, il suo definirsi assassino della nipote). A un certo punto, mentre Misseri continua a raccontare di essere l’assassino e di aver avvertito l’ormai celeberrimo calore alla testa e di essere stato nervoso, il giorno dell’omicidio, perché il trattore non partiva, Vinci riesce addirittura a parlare della vittima. In un vaniloquio che suona testualmente così:

«Gli inquirenti, o anche chi ci guarda la casa, fa fatica a credere che semplicemente per un litigio, anche se dura per diversi mesi, per un trattore che non parte, lei possa commettere un atto così violento nei confronti tra l’altro di una persona che lei stesso dice di essere stata la sua nipote prediletta, lei oggi la chiama “angelo biondo”, dice di aver molto rispetto nei confronti di Sara, ma è difficile credere che questo scatto possa in qualche maniera trasformarsi in una furia omicida.


Alle spalle dei due, mentre Misseri parla delle sue versioni, c’è scritto: La VERITA’ di Zio Michele. Verità è una parola importante. Ed è lì, scritta in rosso. La regia ci zooma addirittura, così come zooma in un piano strettissimo sugli occhi del reo-confesso-che-però-non-viene-creduto. La verità non dovrebbe essere accompagnata a un aggettivo possessivo. Quantomeno, non dovrebbe accadere in un programma giornalistico: verità e sua non vanno d’accordo. Eppure, siamo talmente abituati a questo uso disinvolto delle parole, affatto in libertà, che non ce ne rendiamo più conto. Non ci può essere, la “verità di qualcuno”. Ci sono le versioni dei fatti. E, no, non è un sinonimo e nemmeno una semplificazione. E’ solo il trionfo della neolingua di orwelliana memoria: il grande fratello, quello che viene ben prima del reality show. E come al Grande Fratello – il reality show – Misseri si riguarda in un RVM che ricostruisce la sua storia, in un picture in picture che ci mostra Misseri che guarda se stesso; che guarda le proprie dichiarazioni ricostruite; che guarda Salvo Sottile o la Bruzzone che parlano di lui.


In fondo, questa è solo una versione più elaborata e drammaticamente affine alla realtà di un confessionale.

Che la tv non sia avvezza a parlar di verità è cosa nota. Ma se è questo il linguaggio che sa mettere in campo, allora dovrebbe solo lasciar perdere.