MasterChef Italia compie 10 anni ma riesce a essere sempre più fresco: con la nuova tripletta di giudici ha ingranato una nuova marcia fin dall’anno scorso e quest’anno riesce ad accelerare sul pedale della piacevolezza, nonostante la pandemia. Anzi, questo MasterChef Italia 2020 è quanto di più lontano possa esserci da una ‘pandemic edition’ in una stagione tv che fa fatica a trovare una dimensione extracontesto: le procedure di sicurezza ci sono ma restano ‘invisibili’ agli occhi e anche al racconto. Nelle due puntate dedicate al primo turno di selezioni, il Covid vien fuori solo da qualche dettaglio, su cui peraltro non si indugia: sul piano produttivo, l’impossibilità di lavorare con ingredienti portati da casa e la necessità di dividere gli spazi diventa un’ulteriore difficoltà per gli aspiranti concorrenti, che devono mettere subito da parte l’emozione e mostrare la propria lucidità e la propria determinazione fin dall’individuazione e dalla scelta degli ingredienti nella grande dispensa messa loro a disposizione dalla produzione. E in 5′ trovare gli ingredienti pensati per la propria ricetta ‘cavallo di battaglia’ o scontrarsi con prodotti mai visti prima se non in scatola o etichettati sono subito strumenti di scrematura. E sfido chiunque a uscire normalmente da un supermercato senza aver dimenticato almeno qualcosa della propria lista. La necessità aguzza quindi l’ingegno: la prassi si riscrive e diventa nuova difficoltà, mentre acquistano finalmente un valore gli accompagnatori, che diventano davvero parte del racconto personale del concorrente come ‘aiutanti’ e talvolta antagonisti. Ma almeno non sono solo un addobbo retorico.
MasterChef Italia ha trovato la sua trinità
Un anno dopo la combinazione dei giudici resta l’arma vincente: un’alchimia incredibile ottimamente costruita anche dalla scrittura e dal montaggio. Se all’inizio si punta a un Barbieri Show, di rosso infernale vestito, a sottolineare la sua maggiore ‘autorevolezza’ dettata dai 10 anni di ininterrotto servizio – e accompagnata anche da un ricorso più insistito del solito a PPP che puntano a farne il più temuto dai concorrenti, è anche vero che l’equilibrio tra le parti non viene mai meno. Come in una squadra di ciclismo impegnata in una salita complicata, il terzetto si dà il cambio alla guida, mantenendo una fluidità sempre coerente e riconoscibile delle scelte fatte. La scrittura gioca col diabolico e cattivissimo Barbieri (ormai nel ruolo che fu di Cracco), l’angelico e gentleman Locatelli (col sorriso che però inchioda) e il serafico e accogliente Cannavacciuolo, chiamato a fare da ‘paciere’ tra il diavolo e l’acqua santa, ma che in realtà fa i fatti: i no di peso sono i suoi e molti grembiuli grigi portano la sua firma. E allora non sbaglia il concorrente che appella Antonino ‘Zeus’, Giorgio ‘Apollo’ e Bruno ‘Marte’.
Il piacere del racconto
Si ride e si piange: non importa neanche sapere qualche grembiule sarà davvero assegnato, ma si gode della storia raccontata e dei valori trasmessi. Il freak è sempre più una sparuta nota di colore o è invece la chiave per sorprendere il pubblico. Niente è quello che sembra nelle cucine di MasterChef: i più sicuri sono giganti di gesso, i più insicuri delle miniere d’oro.
Due puntate ottimamente costruite che restituiscono lo spessore di una italianità dalle mille sfaccettature: la chiave principale resta quella della rivalsa, del riprendere in mano la propria vita, della liberazione dalle convenzioni cui una vita difficile li ha costretti, ma ci sono davvero i mille volti di una società fatta di sbruffoni presuntuosi ed arroganti che a MasterChef ora non hanno più spazio. E per fortuna. E’ una delle migliori svolte narrative che il programma ha avuto nelle ultime edizioni. Così come non ha legittimità il ‘caso umano’ fine a se stesso: se c’è un principio di qualità ce la si può giocare, altrimenti a casa. E questi tre giudici – insieme alla squadra di autori, ça va sans dire, sembra sempre più abile nel grattare la superficie e andare a fondo di storie e personaggi, moltiplicandone l’effetto narrativo e rendendolo ancora più dirompente: penso alla donna albanese che si libera piano piano della sua ‘follia’ per raccontare il suo matrimonio combinato appena adolescente e il divorzio ottenuto contro il volere del padre, che non l’ha mai perdonata, neanche sul letto di morte; c’è la 45enne che indossa una maschera di strafottenza che nasconde una gran fragilità; c’è il saldatore che ha dovuto rinuniciare al sogno dell’Alberghiero per aiutare la famiglia e ora cerca di vivere la sua vita, quella che per 30 anni ha vissuto come qualcun altro, con un grembiule addosso; c’è la giovanissima dai capelli arcobaleno che ha combattuto l’anoressia cucinando e chi si presenta al cospetto dei giudici come una coppia, io e il riso, suo alleato per un anno e mezzo per perdere peso.
Tante storie, alcune inevitabilmente segnate dalla Pandemia, ma sul Covid, come dicevamo, non si insiste: sul piano narrativo appare, per ora, solo di striscio quando si fa riferimento a qualche lavoro in stand-by, a qualche tentativo di reinventarsi in un periodo in cui tutto il resto è fermo; sul piano della confezione lo sforzo più grosso. Non ci sono mascherine, la distanza non allontana, le norme anti-contagio non diventano protagoniste, il che rende questa edizione praticamente come le altre, almeno in questo primo doppio appuntamento. Una ‘normalità’ che costa molta fatica dietro le quinte, che richiede tempi di pre-produzione lunghi, procedure ferree. Una fatica che non si vede ma che si apprezza, tutta, nel rendersi conto che di fronte a MasterChef Italia anche il Covid ‘scompare’ (e se davvero bastasse così ‘poco’)…
Per i 10 anni, quindi, i giudici chiedono un livello alto in classe e nelle prove. Il bello è che i primi a dare il buon esempio sono loro e che i primi ad alzare il livello sono autori e produzione. Chapeau.