M. Il figlio del secolo, recensione: House of Fasci per intrappolare il pubblico nella morsa di un drama sia storico che contemporaneo
Luca Marinelli incontra in Mussolini il ruolo della sua vita; Joe Wright e il suo distacco-non distacco creano una serie storica ma dai linguaggi e significati contemporanei
Parlare di serie dell’anno la prima metà di gennaio potrebbe essere prematuro; ma se la serie in questione è M. Il figlio del secolo possiamo dire di andarci molto vicino. Perché a prescindere dagli altri titoli che la tv italiana ci proporrà nell’arco del dodici mesi dell’anno appena cominciato, è indubbio che il valore e la potenza della serie Sky Original rimarrà nei ricordi di chi, il prossimo dicembre, dovrà tirare le somme dei migliori prodotti andati in onda sul piccolo schermo. Tutto questo giro di parole serve solo per dirvi che sì, M. Il figlio del secolo rispetta le aspettative che in questi mesi erano state riposte nei suoi confronti e sì, ancora una volta Sky ha alzato l’asticella.
La recensione di M. Il figlio del secolo
L’asticella di Sky si alza anche oltre il contenuto
Partiamo proprio da questa asticella che la pay tv in questi anni ha, appunto, alzato sempre più, offrendo al proprio pubblico produzioni che si staccassero dall’offerta degli altri broadcaster e che diventassero altro, ovvero dei veri e propri eventi capaci di far parlare anche chi a Sky non è abbonato (e magari rimedia con NOW).
Negli ultimi mesi, alle varie presentazioni delle serie targate Sky, Nils Hartmann (Executive Vice President Sky Studios per l’Italia e produttore di M. Il figlio del secolo) ha reso chiara l’idea del gruppo, ribadendo la presenza dei propri titoli ai più importanti festival cinematografici. Da un paio di stagioni, la pay tv sta effettivamente virando la produzione delle proprie serie verso un senso differente, più improntato al già citato evento e, sopratutto, ad un pubblico che non deve essere per forza quello degli abbonati standard.
M. Il figlio del secolo ne è l’ennesima, se non la più evidente, dimostrazione: per la sua impostazione, per la scelta di una regia audace, straniera ma non per questo meno empatica con la nostra Storia come quella di Joe Wright e per la provocazione di lanciarla, la sera prima del debutto, con un “discorso a reti quasi unificate” sotto forma di spot posizionato nelle fasce di access prime time di tutte le tv generaliste.
Una mossa, quest’ultima, che ci dice due cose: la prima è che a Sky evidentemente riescono ancora ad avere le risorse necessarie per campagne promozionali che vanno oltre il semplice appoggio sui social network e che riescono a diventare esse stesse evento (un plauso a chi ha avuto l’idea e a chi l’ha sostenuta); la seconda è che la sfida di Sky alla tv tradizione non solo è stata lanciata, ma è stata vinta.
La “trappola” di M. per una serie dalla mission chiara
Ovviamente, tutto questo sforzo deve essere giustificato da un prodotto che ne sappia essere all’altezza: e sì, M. Il figlio del secolo merita una campagna promozionale in grande stile. Siamo di fronte a una serie che supera ogni limite che fino ad oggi ci si era imposti: dall’uso della violenza, dai dialoghi che squarciano, per davvero, la sensibilità del pubblico, fino ovviamente alla scelta di un protagonista e soprattutto alla sua messa in scena tramite un’evoluzione da perdente a uomo più potente d’Italia.
Il Mussolini di M., lo hanno chiarito anche gli autori in conferenza stampa, non è quello dei libri di Storia o dei documentari: le debolezze e paure che lo travolgono nei primi episodi “intrappolano” il pubblico nella morsa dell’empatia, mettendo in mostra più l’uomo che il dittatore spietato. Ma proprio questa trappola serve a dare la spinta necessaria alla seconda parte della serie, quella in cui Mussolini tira fuori il peggio e dà sfogo a ogni sua subdola idea trascinando un Paese alla rovina.
M. Il figlio del secolo, in altre parole, fugge dal rischio di ripetere ciò che altri prodotti appartenenti ad altri generi avevano fatto. La mission, qui, è un’altra ed è chiarissima fin dal primo, disturbante, discorso che il futuro Duce tiene rivolgendosi direttamente al pubblico: questa è un serie tv, il cui compito è innanzitutto sapere intrattenere il pubblico che la guarda. E ci riesce, eccome.
Il successo di M.? Cast, regia e colonna sonora
Come ci riesce? Non si può non citare in primi il comparto artistico dietro questo imponente progetto: dallo straordinario Luca Marinelli, che ha probabilmente incontrato il ruolo della sua vita seppur si sia dovuto annullare per come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi, fino al resto degli interpreti che lo hanno circondato. Da Francesco Russo a Paolo Pierobon, da Barbara Chichiarelli a Benedetta Cimatti, ciascuno di loro ha messo in mostra un lato del proprio talento che in passato non era ancora emerso. Evidentemente, serve un progetto, una provocazione e una giusta idea per far risaltare ogni freccia che un attore o attrice ha nella propria faretra.
Abbiamo già fatto cenno alla regia di Joe Wright: il suo distacco inglese, in realtà, tanto distacco non è. Wright guarda l’Italia, il fascismo e Mussolini con gli occhi di un uomo dall’animo contemporaneo, che è conscio del difficile periodo storico che stiamo attraversando, trasportando gli anni Venti del Novecento negli anni Venti del Duemila anche sotto il punto di vista del linguaggio.
Una regia, la sua, cruda, senza mezzi termini, visionaria e capace di sfruttare ogni registro a sua disposizione pur di portare a casa il risultato. Soprattutto, c’è anche in questo caso la consapevolezza di stare lavorando a un’opera d’arte e, in quanto tale, M. Il figlio del secolo regala scene che sono una gioia per gli occhi (un po’ meno per lo spirito).
La musica, infine: la scelta di Tom Rowlands, papà dei The Chemical Brothers, è già di per sé la risposta migliore a chi si stesse ancora chiedendo quale sia il tono della serie. Le musiche da lui composte, nel pieno rispetto dello stile elettronico che lo ha reso famoso, danno l’ascesa del fascismo un ritmo asfissiante, da cui è impossibile scappare. Torna, anche in questo caso, il senso di trappola in cui il pubblico si ritrova e che rende ancora più chiare le intenzioni del progetto.
Mussolini come Underwood
Indubbiamente la scelta del linguaggio da usare per raccontare questa serie deve essere stata al centro di grandi discussioni in quel di Sky. Infine, la scelta è caduta sulla rappresentazione di un Mussolini che, come detto, attira per la sua debolezza iniziale e poi sferra la sua forza malvagia e strategica rivelandone la natura.
Il rischio era quello di far diventare la serie troppo piena di sé, autocelebrativa. Il rischio è stato evitato adottando la misura costante in tutti gli episodi dell’abbattimento della quarta parete, con il protagonista che a più riprese guarda in camera, parla con il pubblico, gli presenta i personaggi e anticipa le loro e le sue mosse.
Il Mussolini di M. Il figlio del secolo è, insomma, come Frank Underwood: due figure che cercano di non annaspare, disperatamente in cerca di un riscatto e di una conferma delle proprie convinzioni e così nutrite dal dubbio che hanno bisogno di illustrare ogni propria mossa per dare ad esse un senso. Da qui, la necessità di parlare con qualcuno fuori dalla narrazione, di cercare oltre la messa in scena un appiglio. Mussolini parla a un pubblico che non gli può rispondere, in un dialogo senza contraddittorio che fa da ponte tra l’allora e l’oggi. E che da House of Cards ci porta dentro House of Fasci.