Luzzatto Fegiz e il pezzo “fantasma” su Elton John a Sanremo (e molto altro sul giornalismo)
Quella sera il cantante non si esibì, ma il pezzo era già pronto. Il racconto del giornalista e qualche considerazione sul giornalismo.
A Le amiche del sabato, su Rai1: Mario Luzzatto Fegiz, uno dei “grandi vecchi” (non ce ne voglia, per carità, la dicitura è bonaria) del giornalismo musicale italiano racconta
«il peggior incidente giornalistico della mia carriera».
Si parla del Festival di Sanremo, guarda un po’, e di un articolo di Fegiz per il CorSera.
«Qella sera a Sanremo», ricorda il giornalista, «doveva cantare Elton John che litigò con il suo fidanzato. Non cantò, io avevo preparato una descrizione minuta della sua esibizione che per un errore tipografico è finita nelle pagine. Quindi mi sono sentito spernacchiare giustamente da tutta Italia per un’esibizione che non c’è mai stata».
L’aneddoto non è cosa nuova. A cercarne traccia sul web si trova intanto un pezzo, sempre sul Corriere, con tante scuse per la recensione di cui sopra. Ovviamente la colpa è attribuita un po’ all’ufficio stampa dell’Ariston un po’ all’artista capriccioso. Il pezzo inizia così:
«SANREMO – Elton John a Sanremo: chi l’ ha letto ieri sui giornali (in prima edizione) e aveva visto la sera precedente il Festival, ha probabilmente creduto che gli inviati all’ Ariston fossero impazziti. E a ragione. Ma noi come voi abbiamo appreso la notizia della clamorosa defezione della popstar inglese all’ ultimo minuto dalla viva voce di Pippo Baudo in diretta tv, e cioe’ quasi a mezzanotte».
E’ una buona ragione per aver preparato ex ante una recensione? Dubito.
Ma Fegiz già nel 2010 aveva ammesso la cosa a Rolling Stone. E aveva raccontato anche di aver scritto un pezzo sulla sua presenza ad una conferenza stampa di Madonna. Non c’era mai stato, tutto copiato da un lancio Ansa.
Bravo perché confessa?
In studio su Rai1 oggi, Roberto Alessi, in effetti, propone un applauso
«a Fegiz che dopo anni riconosce lo scivolone. Bravo, questa è una grande lezione».
Perché applaudire? Fegiz aveva preparato un pezzo di un’esibizione che non ci sarebbe stata. E’ stato pubblicato (nella versione di Rolling Stone, si dice in alcune edizioni del Corriere, non in quella di Milano ma in altre), ma sarebbe stato pubblicato, probabilmente identico, anche se l’esibizione ci fosse stata. Il tutto è giustificato dalla chiusura delle tipografie? No. Perché il giornalismo è racconto di fatti che sono accaduti (o esposizione di opinioni sui medesimi, se si vuole far opinione) e di cui si abbia avuto esperienza, diretta o indiretta.
Un pezzo su un’esibizione non ancora vista è pura fiction, e non è un errore: è fatto scientemente. Se non altro Fegiz lo racconta – e fa anche divertire nel dirlo – e molti altri se ne guardano bene, di spiegare come sia fatto il giornalismo di spettacolo.
Che pecca di approssimazione, come posso provare a dimostrare: mi si perdoneranno i vezzi autobiografici, ma sono necessari per arrivare al punto. Ricordo, per esempio, quando, non ancora diciottenne, dovevo recensire uno spettacolo teatrale per una rivista diffusa nelle scuole superiori di Torino (si chiamava Zai.Net, ed esiste ancora). Ero nei posti riservati alla stampa, giustamente emozionato – mi sembrava un privilegio, vedere lo spettacolo “gratis”. Il disincanto arrivò poco dopo, quando un “collega”, dopo aver preso appunti per una decina di minuti, si alzò e se ne andò. Il giorno dopo il pezzo era pubblicato sul giornale. Mi spiegarono che era prassi: le rotative chiudevano presto. Ok, e allora pubblichi il giorno dopo ancora, no? Piuttosto che inventare. No. Non funziona così, mi dissero.
Oppure quando alla premiere di Romanzo criminale una collega mi disse: «Ma tu scrivi su TvBlog? Questa recensione è tua? «Sì, certo», risposi. «Ah, ti spiace se prendo spunto? Io non l’ho visto ma devo farci un pezzo». Il seguito è facilmente immaginabile.
O ancora, quando ho assistito personalmente a come due colleghi inventassero a colazione, fomentandosi a vicenda, una notizia relativa ad un presunto duetto fra big. L’invenzione divenne un titolo secco, all’indicativo presente. Il duetto non ci fu e probabilmente mai ci sarà.
Oppure quando su TvBlog pubblicammo una bellissima recensione di Prison break scritta da un amico, che poi se la ritrovò, quasi identica, sulla quarta di copertina del dvd della serie (c’entra anche questo, col giornalismo. Perché questo è un paradosso, ma spesso accade il contrario, con parafrasi).
L’elenco potrebbe continuare. Fino ad arrivare ai giorni nostri (e qui l’esperienza non è più diretta e personale, ma sotto gli occhi di tutti): Repubblica annuncia il Boss all’Expo 2015 di Milano. Notizia immediatamente smentita, ma non da chi l’ha data, a quanto mi risulta. Eppure c’è differenza fra l’uso dei condizionali, un “errore giornalistico” e scrivere una fiction sapendolo. (E comunque gli errori si correggono, sempre, oltre a scusarsi).
Ora, lo dico chiaro e tondo: a me certe furbate non sono mai piaciute. Non sai, non hai visto, non c’eri? Be’, lo scrivi, e non inventi un bel niente, e citi i colleghi, eventualmente. Moralismo? No, moralità.
Anche perché poi uno pensa: ma se il giornalismo di spettacolo è questo (e potrebbe essere molto meglio, con poco sforzo, soprattutto oggi) come funziona tutto il resto? La risposta è semplice: basta guardare le colonnine di destra dei “big”, la quantità di bufale che si diffondono a macchia d’olio con l’ossessione dell’engagement social (perlopiù buffe, “incredibili” – e infatti spesso non vere –, emotional o di “cronaca bianca” e perlopiù mai smentite, come il caso della candela che ti riscalda una stanza o del drone che spia gli studenti copioni. Ma la deriva riguarda un po’ tutto il giornalismo nostrano. Basta vedere i titoli sul discorso di Obama, che non ha stoppato un bel niente e invece, secondo l’italica informazione avrebbe interrotto il programma di intercettazioni dell’NSA, oppure il processo senza appello a Snowden su Rai Storia, per capirci), e disperarsi.