Il Lupin di Netflix “sbagliato” perché nero? No, Corriere, non ci siamo
Serie tv come Lupin o Brigderton, che non sono documentari storici, possono e devono prendersi la libertà di raffigurare la realtà sotto i suoi mille volti
“Un senegalese alto un metro e novanta”: inizia così l’articolo firmato da Renato Franco su Lupin e disponibile sul Corriere della Sera. Un articolo che ha riportato al centro dell’attenzione la serie tv di Netflix uscita l’8 gennaio scorso e diventata in meno di un mese uno dei titoli più visti della piattaforma (entro fine mese, hanno fatto sapere Ted Sarandos e Reed Hastings, arriverà a 70 milioni di visualizzazioni).
I motivi, però, son ben differenti da quelli di qualche settimana fa, quando gli abbonati a Netflix hanno iniziato a godere dei cinque episodi della prima parte della serie francese. Franco, nel suo articolo, contesta infatti la scelta dei produttori di affidare il ruolo del protagonista ad Omar Sy che, secondo il suo punto di vista, non sarebbe coerente con la figura del personaggio creato nei primi anni del Novecento da Maurice Leblanc.
“Un’opportunistica volontà di compiacere il politicamente corretto piuttosto che un reale afflato di parità di diritti e uguaglianza universale”, scrive l’autore del pezzo, che cita anche le nuove linee guida degli Academy Awards nelle nomination dei prossimi premi Oscar.
Franco arriva addirittura a parlare di “blackwashing: ovvero mettere sullo schermo personaggi neri che storicamente dovrebbero essere bianchi”. L’accusa -se così vogliamo chiamarla- è di aver scelto un attore di colore per interpretare la nuova incarnazione di Lupin. Poco importa se Sy è una delle celebrità più apprezzate in Francia e non solo: è di colore, quindi non può essere Lupin.
Ma nel pezzo, l’autore ricorda com’è giusto che sia la trama del Lupin di Netflix, rivelando che Sy non è il “vero” Lupin ma un uomo –Assane Diop il suo nome- che si ispira alle gesta del ladro gentiluomo descritte nei suoi racconti per vendicasi della famiglia che ha incastrato il padre anni prima. Perché, allora, non dirlo ad inizio articolo, invece che cominciare descrivendo l’aspetto fisico del protagonista?
Nessuna accusa di razzismo, sia chiaro, ma giudicare il Lupin targato Netflix solo perché il suo protagonista non è bianco è decisamente limitante, anche per una trama di una serie che -e lo abbiamo scritto anche noi nella nostra recensione- avrebbe potuto (e chissà che non lo faccia in futuro) offrire spunti più interessanti e sorprendenti. Il colore della pelle, però, non c’entra assolutamente nulla e non deve mai c’entrare nulla.
Citare anche Bridgerton, ovvero l’altra hit del momento di Netflix, e la scelta di affidare ad un uomo di colore la parte del co-protagonista di una serie ambientata nell’Inghilterra del primo ventennio del 1800 o di rendere afroamericana la Regina Carlotta (visione, quest’ultima, che appartiene ad una teoria sviluppatasi in passato secondo alcuni storici, tra l’altro) può aprire un dibattito, o meglio ne apre due.
Da una parte, quello relativo alla volontà di inserire in produzioni ambientate in epoche passate personaggi di origine afromericana anche senza la certezza provata che questi personaggi potessero vivere realmente in quei contesti. E di quello se ne può parlare, certo: ma fin quando le produzioni in questione non hanno alcuna ispirazione documentaristica, perché contestare certe scelte?
C’è poi la questione legata al “politicamente corretto”, come si legge nel pezzo del Corriere, che starebbe stravolgendo la Storia: dare la giusta opportunità a tutti e mostrare un cast il più differente possibile, a nostro parere, è piuttosto l’opposto del politicamente corretto. E’ un voler sfidare certi paradigmi e stereotipi ed invitare chiunque ad avere una visione di ciò che ci circonda nuova e più inclusiva. E non è forse uno dei motivi per cui la serialità è diventata a giusta ragione portavoce e rappresentante di quei valori che rendono la nostra società migliore di come era in passato?
No, quello di Lupin, Bridgerton e di numerose altre serie tv free o pay non è politicamente corretto, ma è apertura ad un mondo che guarda ai mille volti della realtà e non si intestardisce su quello che fino a poco tempo fa era considerato il più consono. Guardiamo Omay Sy, che nei panni di Assane Diop/Lupin fa la sua porca figura, ma guardiamo anche a chi, come Amanda Gorman ha fatto durante l’insediamento Biden, ci conduce per mano verso un futuro in cui per recensire una serie non si debba partire commentando il colore della pelle del suo protagonista.