POV: sei nat* nel 2004, hai quindi vent’anni, e le serie tv te le vedi quando, dove e come vuoi grazie alle piattaforme. Per chi si ritrova in questa breve prospettiva, Lost potrebbe non essere altro che una serie presente nei cataloghi di Netflix, Disney+ e Prime Video; 121 episodi da vedersi in binge watching, un’altra serie da scoprire e di cui tanto s’è parlato. Per tutti gli altri, Lost è stato qualcosa di più, molto di più. Il 22 settembre 2004 andava in onda negli Stati Uniti il primo episodio di una serie tv di cui, vent’anni dopo, si parla ancora. E che ha davvero cambiato il modo di pensare ad un genere, quello delle serie tv, fino ad allora ancora sottovalutato.
È vero che prima di Lost ci sono state serie come Oz, I Soprano e Six Feet Under, entrate di diritto nell’Olimpo delle serie tv migliori di sempre. Ma queste tre serie hanno in comune il fatto di essere produzioni destinate alla tv via cavo, dunque a un pubblico di nicchia e che, soprattutto, avevano messo in chiaro fin dal primo episodio cosa stessimo guardando.
Lost è diventata una serie tv immortale perché, innanzitutto, è stata una serie tv per tutti: in onda sulla Abc, uno dei canali televisivi generalisti per eccellenza, per essere seguita non necessitava di abbonamenti. Aveva bisogno di un’altra cosa, non meno importante: la fede.
Spettatore di scienza, spettatore di fede
Il tema ricorrente di Lost è sempre stato fede contro scienza: Jack e Locke si sono fatti portavoce di due scuole di pensiero da cui puoi tutta la trama della serie ha sviluppato le linee narrative minori. Dai flashback ai flashforward, dalla costruzione dei singoli personaggi tra presente e passato, dalle realtà parallele al gran finale, Lost è sempre stata una questione di fede e scienza. E come i personaggi, anche noi, pubblico, siamo stati chiamati a decidere.
Lost ancora oggi fa sussultare il cuore di chi l’ha seguita: o, meglio, fa sussultare il cuore di chi ha scelto la fede verso la serie. Una serie che, complici le imposizioni meramente commerciali del network, è andata incontro verso le ultime stagioni a scelte contrassegnate dalla necessità di allungare la storia, di tardare quel finale a cui Carlton Cuse e Damon Lindelof tenevano così tanto da aver convinto (anche questa ai tempi cosa più unica che rara) la Abc a fissare una data di conclusione di Lost, avendo la consapevolezza degli episodi rimasti e di come gestire tutto il mistero creato intorno all’isola.
L’ultimo vero mistery drama
Il mistero: è questo l’altro grande elemento di Lost. Ai tempi, Lost era stata indicata come degna erede di Twin Peaks proprio per la quantità di incognite offerte dalla trama e per lo sforzo richiesto al pubblico di indagare con i protagonisti sul perché l’Oceanic 815 si fosse schiantato proprio su quell’isola, e perché proprio loro.
Dopo la fine di Lost non mancarono i maldestri tentativi di raccoglierne lo scettro da parte di altre serie mistery. Ma quello scettro, in realtà, Lost non l’ha mai ceduto. Neanche anni dopo, con la nascita di Game of Thrones, l’ultima grande serie aggregatrice che abbiamo conosciuto: GoT, infatti, ha puntato più sul senso di empatia da parte del pubblico verso le casate protagoniste, come fossero squadre per cui fare il tifo. Più che misteri, in Game of Thrones, ci sono le teorie, vero motore dell’affetto del pubblico verso la storia. Ma anche in questo caso, dobbiamo ritornare a Lost.
Lost è diventato il pubblico, e il pubblico è diventato Lost
Mai prima di Lost, infatti, c’è stata una serie tv capace di rendere il pubblico parte attiva del racconto. Le fan theories che in sei stagioni si sono lette, sentite e discusse sono qualcosa che ancora oggi rappresentano un caso più unico che raro. Gli spettatori e le spettatrici di Lost non hanno solo guardato la serie, non hanno avuto fede verso la storia anche nei momenti di minore intensità, ma hanno anche voluto diventare lo stessi la serie.
E ce l’hanno fatta: se pensi a Lost, oggi, a vent’anni di distanza da quel pilot costato 12 milioni di dollari (allora era un record per le serie tv) e visto da 18,6 milioni di telespettatori, non puoi non pensare ai fan. Storia, personaggi e pubblico sono diventati un tutt’uno, come hanno dimostrato alcune scelte di sceneggiatura, che hanno tenuto conto delle reazioni degli spettatori per aggiustare la rotta di settimana in settimana. Non vi ricordate Nikki e Paulo? Appunto.
20 anni di Lost con un documentario e lo spettro del reboot
Lost ha compiuto vent’anni. È ormai adulto, a vederlo oggi un ventenne potrebbe sorridere per la scarsità di alcuni effetti speciali, o perché non saprebbe riconoscere nessuno degli attori principali. Eppure, Lost è ancora qui: nell’influenza che ha avuto sull’industria televisiva successiva alla sua conclusione, che ha saputo fare frutto di un fenomeno durato sei stagioni, di un cast corale, di intrecci di storie che vadano oltre la linea narrativa principale e di un finale che, forse, poteva essere scritto con più calma, ok, ma che ha anch’esso saputo insegnare qualcosa.
E mentre su Netflix Usa proprio oggi, 22 settembre 2024, esce il documentario Getting Lost, con interviste a cast e sceneggiatori, su Lost continua ad aleggiare lo spettro (o il mostro di fumo nero, se vogliamo essere coerenti) di un reboot/sequel. Se ne parlò già negli anni successivi alla sua conclusione, e di tanto in tanto un nuovo Lost torna sulla bocca di chi fa tv. Prima o poi si farà: quando è difficile dirlo, ma se sono bravi in America lo presenteranno o faranno di settembre, il 22.