L’Antitrust spinge la Rai verso la privatizzazione
La proposta di inserire nei titoli di coda i compensi dei conduttori Rai, estemporanea trovata partorita dalla Commissione di Vigilanza, non smette di avere un seguito, sempre più interessante e dai contorni inattesi. L’ultima novità è la nota consegnata dall’Autorità Antitrust, chiamata ad esprimere un parere in seguito alla possibilità che ogni conduttore della tv
La proposta di inserire nei titoli di coda i compensi dei conduttori Rai, estemporanea trovata partorita dalla Commissione di Vigilanza, non smette di avere un seguito, sempre più interessante e dai contorni inattesi. L’ultima novità è la nota consegnata dall’Autorità Antitrust, chiamata ad esprimere un parere in seguito alla possibilità che ogni conduttore della tv pubblica veda scorrere il suo stipendio di fianco al nome del truccatore e del capo elettricista.
In sostanza l’Authority sostiene che questa pratica sarebbe anche consigliabile, ma ad una condizione, e cioè che avvenga “una netta distinzione – in termini di assetti proprietari, profili organizzativi e modalità di gestione e di finanziamento – tra le attività rientranti nel servizio pubblico radiotelevisivo, fondamentale per garantire il pluralismo dell’informazione, e quelle connotate da una vocazione prettamente commerciale“. Giusto, per l’Authority, che i conduttori del servizio pubblico aderiscano ai criteri di trasparenza sui compensi previsti per i dirigenti della pubblica amministrazione, ma a patto che sia compiuta quella transizione che, tradotta in italiano, è la “privatizzazione della Rai“.
Viceversa il rischio è quello di creare “un’evidente asimmetria nel settore televisivo e potrebbe ridurre la capacità competitiva della Rai nell’acquisire e trattenere le risorse, soprattutto umane“.
Ecco parte della segnalazione inviata al Ministero dello Sviluppo Economico:
L’obbligo di rendere pubblici nei titoli di coda dei programmi radio e tv i compensi di conduttori, ospiti, opinionisti, e i costi di produzione dei format è importante per assicurare la trasparenza del servizio pubblico ma, per evitare effetti distorsivi della concorrenza, occorre che questo venga distinto dalle attività commerciali della Rai.
L’Autorità ricorda di avere più volte sollecitato una netta distinzione – in termini di assetti proprietari, profili organizzativi e modalità di gestione e di finanziamento – tra le attività rientranti nel servizio pubblico radiotelevisivo, fondamentale per garantire il pluralismo dell’informazione, e quelle connotate da una vocazione prettamente commerciale. Tale distinzione non è però avvenuta: per questo, nonostante le comprensibili esigenze di responsabilizzazione e trasparenza del servizio pubblico, l’obbligo di rendere noti i compensi creerebbe un’evidente asimmetria nel settore televisivo e potrebbe ridurre la capacità competitiva della Rai nell’acquisire e trattenere le risorse, soprattutto umane.
La Rai sarebbe infatti l’unico operatore obbligato a rendere pubblici i propri costi ad un livello di dettaglio disaggregato, fornendo dati per loro natura estremamente sensibili sotto il profilo commerciale. Né si può ipotizzare di estendere l’obbligo di rendere noti i compensi a tutti gli operatori televisivi: una soluzione di questo tipo creerebbe un’artificiale e generalizzata conoscenza delle condizioni alle quali le imprese attive nel settore televisivo realizzano i propri prodotti, ponendo le basi per condotte di mercato lesive della concorrenza.