La pubblicità al tempo della non Tv
Pubblichiamo, nella speranza di realizzare un costruttivo scambio di idee che coinvolga anche i nostri lettori e collaboratori, un post di Sifossifoco, scritto per il tvblog.splinder.com Se ne parlava qui sotto via commenti con Malaparte del ruolo sempre meno marginale della pubblicità. Ricordo, quando ero un giovanissimo direttore creativo d’agenzia, di un test di comprensione
Pubblichiamo, nella speranza di realizzare un costruttivo scambio di idee che coinvolga anche i nostri lettori e collaboratori, un post di Sifossifoco, scritto per il tvblog.splinder.com
Se ne parlava qui sotto via commenti con Malaparte del ruolo sempre meno marginale della pubblicità. Ricordo, quando ero un giovanissimo direttore creativo d’agenzia, di un test di comprensione fatto prima di andare a investire una notevole cifra (e la sopravvivenza di un gruppo di diciotto creativi) per uno spot su un nuovo olio per friggere. Erano i tempi quelli, parliamo degli inizi degli anni 80, nei quali nessuna massaia accorta avrebbe sprecato olio extravergine di oliva per una banale frittura. Il claim (lo avevo scritto orgogliosamente io su un notes che tenevo sempre in tasca e dove finivano tutte le mie intuizioni, carine e non) diceva: Italiani siamo fritti, ma con più gusto!
Si trattava di trenta miserrimi secondi di filmato, spaccato di vita similfamiliare, che servivano a reggere un claim e una marca. Avrebbe provveduto il GRP, ovvero la pressione (n. passaggi rispetto al target) a decretare il successo della marca. Il test avveniva in due fasi, così: si sottoponevano una decina di persone alla visione dello spot assieme a spot di altri marchi, e se ne chiedeva il ricordo. Poi si sottoponevano altre dieci persone diverse alla visione del solo nostro spot e si chiedeva subito dopo di ricordare la marca. Era il mio primo test, e fu un disastro:
dieci persone su venti, chiamate e pagate apposta per guardare e commentare lo spot, non ricordavano il prodotto, né il claim, né la marca. Solo un paio, su venti, dimostravano d’aver capito tutto il discorso fino in fondo. Non ci dormii sopra per non so quante settimane. Imparai più avanti negli anni che questo succede sempre: metà delle persone che guardano attentamente un messaggio non lo capiscono, lo ignorano e finiscono col non ricordarlo appena un secondo dopo.
Presi io la decisione, mettendo a rischio il mio sudato posto di giovane dirigente: lo spot sarebbe passato comunque… fanculo il test. Per mia fortuna funzionò. Nei supermercati il 20 per cento del target definito acquistò almeno una lattina di prodotto (ai tempi gli olii per friggere erano tutti in lattina) e si deliziò di una frittura con più gusto e al triplo del prezzo, nonostante l’eterna crisi economica italiana.
Scelte così erano all’ordine del giorno nella pubblicità del pre-crisi (prima guerra del golfo o giù di lì): mestiere dei creativi era fare innovazione, anche di linguaggio. Alle feste cui eravamo invitati snobbavamo quelli che pagavano un Andreotti o un De Sica per spingere la gente a acquistare un servizio, dimostrando di non avere uno straccio di idea da giocarsi.
Oggi non è più così. La paura di rischiare ha preso il sopravvento, e la creatività è funzionale ad una stretta logica di mercato che avrebbe imposto uno spot dell’olio a prova di cretino. Inoltre, poiché la pubblicità è diventata padrona della televisione e dei suoi contenuti, oggi non esiste più niente che non sia a prova di cretino. Ad eccezione di alcune ore mensili di programmazione educational che (per una vecchia legge non ancora abrogata) la tv pubblica è “costretta” a trasmettere suo malgrado, anche se alle quattro del mattino.
Pur con qualche ricordo, non nostalgico, il tutto mi fa venire in mente una cosa: che spesso quando le cose che si fanno non sono più soddisfacenti, si deve ripartire dal grado zero e con tutto il coraggio che abbiamo. Una regola che funziona sempre, o forse no?