Ivan Cotroneo a Blogo: “Non penso a La Compagnia del Cigno 3. L’inclusione nella fiction? Si potrebbe fare di più: grave l’assenza di personaggi Lgbtq+ in alcune serie”
Il regista e creatore della serie tv di Raiuno ci parla di inclusione nelle fiction, di famiglie televisive e regala un consiglio ai giovani sceneggiatori
Fonte: Sara Petraglia
Il finale de La Compagnia del Cigno 2, andato in onda domenica scorsa su Raiuno, chiude le vicende dei sei giovani protagonisti del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano, lasciando però qualche spiraglio in vista di una possibile terza stagione. Proprio da qui è partita la chiacchierata che abbiamo potuta fare con Ivan Cotroneo, che della serie tv è regista nonché creatore e sceneggiatore (insieme a Monica Rametta).
E’ stata, però, anche l’occasione per parlare con Cotroneo di altri temi: dalla vittoria ai Diversity Award 2020 proprio per La Compagnia del Cigno grazie all’attenzione verso i temi legati all’inclusione, fino al racconto della famiglia in tv, passando per progetti passati e futuri.
Innanzitutto, bentornato su TvBlog! Partiamo subito con la domanda più ovvia: ci sarà La Compagnia del Cigno 3? Il finale della seconda stagione lascia sì aperta qualche porta, ma potrebbe servire bene anche come series finale…
“A me e Monica Rametta, che abbiamo scritto La compagnia del Cigno e tanti altri progetti originali, piace chiudere le stagioni, ci piacciono le storie che si concludono. Da spettatore, trovo veramente frustrante quando, e disgraziatamente succede abbastanza di frequente, le stagioni si concludono con un finale aperto, e poi per motivi vari, principalmente legati all’ascolto, non hanno un seguito. Noi abbiamo lasciato aperto nella nostra storia di scrittori un solo finale, quello della prima stagione di Una grande famiglia, e mi ricordo di avere tremato perché mancavano tutte le spiegazioni di quello che era successo (delegate alla seconda stagione). Poi di quella storia per fortuna abbiamo scritto tre stagioni e abbiamo avuto il tempo di chiudere le linee narrative.
Per questo motivo la seconda stagione del Cigno si chiude in maniera netta, e ci sono anche dei flash forward di quello che succederà ai ragazzi nel futuro, perché ci piaceva proiettarli oltre il momento del concerto finale. Ciò detto, io penso che l’arena del racconto, e il mondo della musica e dello studio di questi ragazzi si presti comunque a evoluzioni narrative, poiché è ricco, vasto e vario. Direi che per il momento non stiamo pensando a una terza stagione, l’arco narrativo di questa stagione della vita dei ragazzi è pienamente e con nostra soddisfazione chiuso, ma questo non vuol dire che non sia possibile”.
Una nota dolente di questa seconda stagione sono stati gli ascolti in calo rispetto alla prima stagione: tra le cause, potrebbe esserci la distanza di messa in onda -poco più di due anni- o anche la scelta del pubblico di recuperare gli episodi su RaiPlay. Lei come se l’è spiegato?
“Non sono un bravo analista, né prima né dopo la messa in onda. Non capisco mai le ragioni per le quali un racconto televisivo superi le aspettative, o invece le deluda. Quindi non ho vere spiegazioni. Ci sono però dei fattori che sicuramente hanno fatto la differenza: la distanza dalla prima stagione, aumentata dall’emergenza Covid che ci ha costretto a spostare le riprese e quindi la messa in onda di due mesi. La messa in onda della prima stagione è finita agli inizi di febbraio, la seconda è finita a metà maggio, e sono momenti dell’anno completamente diversi.
Il cambio di giorno di programmazione: la prima serie andava in onda di lunedì la seconda è andata in onda di domenica, e la nostra serie ha una composizione di pubblico molto simile a quella del talk di Fazio. E poi, quando si vince la serata comunque, anche se con tre milioni e mezzo di spettatori e il 17 per cento di share, vuol dire che sicuramente il pubblico in questi due anni ha cambiato abitudini e si è frammentato.
Queste non sono però spiegazioni, sono differenze fra la prima e la seconda stagione. Io credo che gli analisti debbano fare gli analisti, e gli scrittori di storie debbano pensare a raccontare storie con l’intento di affascinare e catturare il loro pubblico. Il che a volte succede pienamente, a volte per niente, a volte in parte. Formule certe, per fortuna, non ce ne sono”.
Tra le novità di questa seconda stagione, l’utilizzo delle guest-star, cosa abbastanza rara nella fiction italiana. Come ha convinto Ornella Vanoni, Malika Ayane e Francesco Gabbani a diventare “attori per un giorno”? Senza dimenticarci la presenza di Mika e di Tricarico…
“Mika merita un discorso a parte. Fin dalla prima serie è stato un fan del progetto, ha composto per noi la sigla The sound of an orchestra, e ha accettato di mettersi in gioco come spirito guida di una delle protagoniste, Sofia (Chiara Pia Aurora, ndr). Nella prima stagione avevamo avuto partecipazioni speciali di Michele Bravi e Saturnino. Per questa stagione, oltre a chiedere a Mika di rinnovare il suo affetto aprendoci le porte di un suo concerto (le cui riprese sono state effettuate prima dell’emergenza sanitaria, ndr), ho voluto coinvolgere altri musicisti, oltre alla presenze fisse nel cast di Angela Baraldi e Rocco Tanica.
Ho chiesto quindi a Francesco Tricarico di interpretare un piccolo ruolo e a Francesco Gabbani, Malika Ayane e Ornella Vanoni di venire per un giorno sul set a giocare con noi. E’ stato in realtà molto semplice, tutti e tre conoscevano la serie, e faceva loro piacere essere in un racconto che mette completamente al centro la musica. Mi hanno detto di sì con generosità, e con generosità sono venuti sul set. Sono state giornate bellissime per le quali li ringrazio tutti tanto”.
Nella seconda stagione la vita da Conservatorio ha lasciato maggiore spazio alle vicende personali sia degli allievi che dei Maestri, in primis ovviamente Marioni (Alessio Boni) ed Irene (Anna Valle). Nel fare questa scelta c’entrano le polemiche ricevute durante la prima stagione da alcuni studenti e direttori di Conservatori che contestavano la veridicità di alcune scene?
“No. Abbiamo sempre mantenuto il punto, e tutt’ora lo manteniamo, che il nostro è un racconto di finzione, non un documentario sui conservatori. Inoltre gli apprezzamenti che abbiamo ricevuto sulla prima ma anche su questa seconda stagione da studenti, musicisti, maestri e direttori di conservatori o scuole di musica hanno superato di gran lunga le critiche. E le conseguenze, fra le quali un rinnovato interesse per i conservatori che ha portato a quadruplicare le domande di ammissione al conservatorio di Milano, o ad affollare i concerti del teatro Verdi durante la messa in onda della prima stagione, ci hanno sempre confortato sul fatto che quello che stavamo cercando di fare, e cioè avvicinare un vasto pubblico al mondo della musica classica, avesse una risposta.
Ribadito dunque che si tratta di un racconto di finzione, mi dispiace se siamo stati inaccurati in qualche punto. Sicuramente abbiamo fatto dire in un dialogo che Mascagni ha composto Cavalleria Rusticana a 18 anni, mentre lo ha fatto a 26, e di questa disattenzione mi dispiace: abbiamo ringiovanito il genio di Mascagni, che ovviamente rimane tale anche se espresso a pochi anni di distanza da quello che abbiamo messo in scena noi. Per il resto, in realtà in questa seconda stagione c’è più musica sinfonica rispetto alla prima, i ragazzi preparano e suonano più concerti, si sentono un maggior numero di brani di musica classica e una varietà di autori maggiore, e c’è l’opera che prima non c’era. Di fatto le performance relative al conservatorio sono aumentate.
Quello che è drasticamente calato è invece il racconto da musical, ossia i momenti in cui i sette protagonisti cantavano versioni sinfoniche di canzoni pop: nella prima serie erano 14, nella seconda sono stati 3. Questa è una scelta derivata dal fatto che nella seconda stagione abbiamo deciso di trattare temi più adulti, come la pericolosità delle relazioni tossiche, la genitorialità in età giovanile, che ci sembrava si prestassero meno a una variazione da musical. L’arrivo dei ragazzi nella maggiore età, il superamento della linea d’ombra, coincide anche con un graduale allontanamento da quella atmosfera onirica, come è stato anche per il bosco incantato di uno dei protagonisti, Robbo, in cui da quindicenne si rifugiava…”
La Compagnia del Cigno nel 2020 ha vinto il Diversity Media Award come Migliore Serie Italiana (video in atlo). Il tema dell’inclusione è centrale nell’attualità di questi mesi, come dimostra il dibattito sul Ddl Zan e le varie notizie di cronaca che sentiamo tutti i giorni. Da autore e regista di serie tv, secondo lei la fiction italiana sta contribuendo a questo dibattito ed a chiarire punti che all’opinione pubblica potrebbero essere poco noti o potrebbe fare di più?
“Sta contribuendo certamente, ma certissimamente potrebbe fare di più. La stessa esistenza dei necessari e meritori Diversity Award, che come i Glaad americani a cui sono gemellati premia l’accurata rappresentazione della diversità in senso ampio, sta a sottolineare che esiste ed è diffusa una rappresentazione che è invece inaccurata quando non lesiva.
Ma c’è un altro aspetto di cui spesso non si parla. Di recente in un’intervista al telegiornale in occasione della giornata mondiale contro l’omofobia, la bifobia e la transfobia, mi è stato detto che nella mia attività di scrittore e regista mi sono distinto per la rappresentazione di questi temi. Ecco, credo sia ora che qualcosa cambi, nel senso che chi si occupa di rappresentare le diversità non dovrebbe distinguersi, ma essere insieme agli altri, essere la regola. La mancata rappresentazione è una forma pericolosa di censura.
Talvolta mi chiedo, quando vedo serie televisive arrivate a un numero di stagioni importante, con centinaia di episodi, come mai in tutta questa rappresentazione della realtà non si sia mai pensato di mettere in scena la storia di un gay, di una lesbica, di una persona transgender. E la risposta che mi do è che non è accaduto per caso, è una scelta voluta, e per me grave. Perché la rappresentazione, la sola rappresentazione della realtà, aiuta la lotta per i diritti civili, che sono patrimonio di tutti”.
Altro tema centrale di questi mesi è quello della famiglia. E lei, di famiglie televisive, ne ha raccontate numerose: da Tutti Pazzi Per Amore ad E’ arrivata la felicità, passando per Una Grande Famiglia, Sirene ed Una Mamma Imperfetta… C’è ancora qualcosa che non ha raccontato a proposito delle famiglie e che vorrebbe mostrare al pubblico televisivo?
“Sicuramente c’è ancora tanto da raccontare, perché le famiglie sono tante, e molte non sono ancora rappresentate. Parliamo di famiglie al plurale, perché la realtà che è intorno a noi ci sorprende e supera di gran lunga le previsioni normative, che d’altra parte sono rimaste ancorate a una visione della realtà che appartiene ad altri tempi. Quindi credo che con Monica Rametta continueremo a occuparci della bellezza e della varietà delle famiglie di oggi, e che ci sia ancora tanto da raccontare ed esplorare”.
Nel 2015, alla Festa del Cinema di Roma, aveva presentato il pilot di “2 di Noi”, progetto molto interessante che giocava con l’idea di quanto ciascuno di noi debba nascondere la propria parte più insicura o vera agli occhi degli altri. Ci può dire se quel progetto è stato definitivamente accantonato o se -complice l’espansione delle piattaforme streaming- potrebbe ancora vedere la luce?
“I progetti, specie quelle a cui si tiene particolarmente (e io tengo molto a 2 di Noi) non si accantonano mai definitivamente. Mi piacerebbe molto che quel mondo di insicurezza, di doppioni di rappresentanza, trovasse uno sviluppo, e mi piace pensare che succederà prima o poi. D’altra parte fa riferimento a un’idea centrale che mi pare sempre più attuale, la necessità insopportabile di dover portare una maschera nella vita sociale e lavorativa”.
Insieme a Monica Rametta lavora anche alla serie antologica di racconti di donne che devono cominciare una nuova vita e trovare una nuova forza: dopo Un’altra vita, Sorelle e Mentre Ero Via ci saranno altre storie?
“Sicuramente con Monica siamo sempre interessati a una rappresentazione del femminile che sfugga al test di Bechdel: e cioè avere donne protagoniste che non siano figlie di, mogli di, amanti di, ma abbiano una propria identità narrativa e parlino fra loro di argomenti che NON siano come trovare il principe azzurro o l’uomo che dovrebbe servire a completare le loro vite. In qualche modo quindi quella serie antologica continuerà, magari in altre vesti, ma con lo stesso spirito”.
Le faccio un’ultima domanda, che un po’ ci riporta a La Compagnia del Cigno. Questa è una serie dedicata all’amicizia, ma anche all’importanza di avere nella vita dei mentori che ci guidino verso le versioni migliori di noi stessi. Indubbiamente lei è un punto di riferimento per tutti quei giovani sceneggiatori che si stanno affacciando nel mondo dell’audiovisivo italiano: se prendesse il posto di Marioni, cosa si sentirebbe di dire loro?
“Intanto darei loro una buona notizia: mai come in questo momento c’è stata una così forte richiesta di storie, sia per la televisione che per il cinema, e mai come in questo momento l’attenzione di produttori, broadcaster, Ott, è puntata sui racconti che arrivano dalle nuove generazioni, come è giusto che sia.
Quello che direi loro (che è quello che dico ai miei studenti dell’università con cui faccio laboratorio di scrittura) è di non scoraggiarsi, e che la testardaggine conta quanto il talento. E’ importante non demordere (consiglio sempre loro la lettura della biografia di Jack Kerouac, che racconta quante porte in faccia Kerouac abbia ricevuto prima di pubblicare On the road, che avrebbe cambiato la letteratura del Novecento) e soprattutto non avere paura di sognare il proprio sogno, che può essere molto distante da quello che ci suggerisce una società come la nostra in cui il denaro e la popolarità hanno acquisito un valore fondamentale. Non si è automaticamente felici essendo ricchi o popolari, ma si è abbastanza sicuri di poter essere felici facendo di quello che ti piace di più al mondo il tuo lavoro”.