IL REALITY E’ UN CANNIBALE
Accadono cose strane in periferia, sul mare, mentre noi ci iniettiamo ogni giorno la nostra dose di droga tv e non ci va proprio di prenderne le distanze. Mi è capitato di esserci caduto dentro, a Bellaria, dove da quest’anno (le edizioni del festival sono arrivate a 24), si è aggiunto al programma della rassegna
Accadono cose strane in periferia, sul mare, mentre noi ci iniettiamo ogni giorno la nostra dose di droga tv e non ci va proprio di prenderne le distanze. Mi è capitato di esserci caduto dentro, a Bellaria, dove da quest’anno (le edizioni del festival sono arrivate a 24), si è aggiunto al programma della rassegna un nuovo concorso denominato Anteprima-Doc. Come dice la prima che ho detto, risulta chiaro che si tratta di un percorso sul documentarismo nazionale e internazionale, secondo una tendenza abbastanza recente, dovuta in gran parte al successo dei doc di Michael Moore e di “Viva Zapatero” della Guzzanti che hanno riservato i loro brividi satirici agli spettatori delle sale cinematografiche, come non avveniva da tempo.
Per esperienza e per lavoro (s0no stato per dieci anni coinvolto nel Premio Libero Bizzarri, anche come direttore artistico) conosco abbastanza bene la situazione del doc. Per quanto riguarda l’Italia,dopo la morte di questo glorioso genere negli anni Sessanta per responsabilità dei produttori e degli autori che hanno spesso delapidato i finanziamenti dello Stato- la gente, nelle sale, si alzava e si scagliava con rabbia contro gli scherm-; e dopo che la televisione ha succhiato al cinema registi, direttori delle fotografia, montatori e li ha destinati al doc affiancando loro plotoni di giornalisti o autori tv incapaci perchè di solito improvvisati e raccomandati, il povero doc ha rialzato la testa.
Prima di dire come ciò sia accaduto, devo aggiungere che la tv, nel caso specifico la Rai, ha prodotto e mandato in onda anche eccellenti doc realizzati soprattutto dall’estero (ricordo speciali bellissimi sul Vietnam ad esempio) e ha mosso le acque con doc storici e inchieste di denuncia davvero efficaci (Tv 7 per un certo periodo è stato il Report di oggi).
La ripresa di questo genere di grande rilievo è avvenuta grazie alle tecnologie sempre più leggere e a basso costo, lungi dal mondo della vecchia e cara pellicola, e per la pressione dell’attualità, della cronaca che hanno stimolato gli autori e quella parte di pubblico interessata al trasferimento ormai obbligatorio del doc del grande al piccolo schermo. La moltiplicazioni dei canali, specie quelli satellitari (sul modello Sky-Fox), ha aperto negli anni Ottanta e Novanta un nuovo mercato che per diverso tempo ha suscitato buoni esiti e molte aspettative, producendo e/o acquistando doc di giovani o comunque di autori che si sono rivelati piuttosto bravi.
Detto questo, vengo a Bellaria – festival diretto da Fabrizio Grosoli- dove ero in giuria con l’attrice-scrittrice Francesca D’Aloia, il regista Davide Ferrario, lo scrittore Edoardo Albinati. Ci siamo di fronte a una proposta che, pur lodando il lavoro dei selezionatori che non deve essere stato facile, ha riproposto a tutti noi, e soprattutto a me, un quadro sconcertante. Il successo di Moore e della Guzzanti sembra avere autorizzato, anzi imposto nei doc presentati la durata di un film che, come si sa, è più o meno fissata sui 90 minuti. Come i minuti di una partita di calcio. Questa volontà di incollarsi agli occhi degli spettatori ha generato opere esageratamente allungate: quanto bastavano venti-trenta minuti il cammino del nastro magnetico (ormai la vecchia e cara pellicola mastica solo se stessa nelle sale) abbiamo assistito a lungaggini a volte davvero insopportabili.
Ma se l’imitazione, il vorrei ma non posso verso il cinema doc di Moore e di pochi altri tra cui il francese Philibert, dilaga, dilagano altri vezzi, altri difetti. Un uso smodato delle interviste, interviste spesso tirate allo spasimo nostro; immagini poco curate, all’insegna di un realismo che fa il paio con lo squallore, o tragicamente contaminate da una teatralità retorica e superflua; un montaggio senza finezze e senza senso drammaturgioco; e così via. Tutta roba inquinata e inquinante che viene dalla tv deteriorata che sta prendendo piede in modo definitivo, o almeno sembra, e ha come obiettivo un trash presuntuoso e supponente.
Eravamo nei pasticci. Ma a poco a poco, discutendo, con gli altri amici giurati, abbiamo scelto “Nerik” di Antonella Greco e Pasquale di Meglio, ovvero mezz’ora girata con la telecamera a mano consistente nel dialogo intorno a un cane, un video che sa di Beckett e di Ionesco ma era sobrio, pulito, intenso, e senza ricatti tematici e ideologici. Poi, abbiamo deciso per un secondo premio a “L’amore che fugge” di Maria Martinelli. Il terzo premio, dedicato ad un doc di ispirazione ambientalista, lo abbiamo attribuito a “Un metro sotto i pesci” di Michele Mellara e Alessandro Rossi, girato nel delta del Po, suggestivo, senza svenevolezze.
E’ su “L’amore che fugge” che vorrei soffermarmi un poco. E’ una finta inchiesta su un’agenzia matrimoniale di Ferrara. Spunto non nuovo ma svolto con efficacia e ironia. Finta inchiesta perchè i personaggi che vi compaiono sembrano uscire- o meglio escono- pari pari dal reality show della tv. Era, forse, una parodia, e anche una sorta di strumento contudente rivolto dall’autrice contro i doc realistici più scontati e più prevedibili che navigano di festival in festival, senza tregua e facendo danni incalcolabili. Come pure fa pensare al danno o alla dannosità circolante lo stesso “Amore che fugge”, in cui affiora la prepotenza del modello reality che non solo trasforma in attori consumati le persone che accredita come vere, doc, ma apre uno scenario sul gioco dei sentimenti e della commedia che sta prendendo piede sull’onda del Grande Fratello e dei prodotti similari.
Infatti. Se il film della Martinelli è divertente e sostenuto da una buona tecnica, molti dei doc in concorso hanno proposto varie versioni di reality. Il reality, ovvero recita tassativa, ricostruzione artificiosa, vana e disperata voglia di fare show(con i limiti di cui si è detto). Per cui, tanto per fare un paio di esempi , “La rivoluzione non è una cosa seria” di Marilena Moretti e “Souvenir Srebrenica” di Luca Rosini, sciupano i temi rispettivamente scelti: il ’68 e l’esperienza di una comune politico-hippies in Toscana; e il genocidio bosniaco. Il primo film comincia bene finisce malissimo in uno stucchevole rimpatriata tra gli ex protagonisti di quel tempo (un reality della memoria, spesso a tavola); il secondo ha l’ambizione di intrecciare emozioni di tipo teatrale con le immagini terribili del genocidio,e queste spazzano via tutto il resto e lo rendono davvero fuori luogo.
Avevamo anche individuato nel mazzo un altro doc, “L’estate della fontanella” di Martina Parenti: ci era piaciuto perchè era fatto di silenzi, o meglio di rumori e suoni raccolti in una giornata vuota di Milano, era sobrio e severo, con una caduta finale che ci ha convertito a preferire “Nerik”. Io avevo proposto di premiare entrambi ma la decisione poteva sembrare provocatoria, troppo provocatoria, abbiamo ragionato e ci siamo accordati sul verdetto sopra esposto.
La provocazione era, da parte mia, giustificata come un modo per fare argine contro la televisizzazione in corso , un’invadenza niente affatto strisciante, ma anzi esplicita, sgradevole e autoritaria. E soprattutto invisibile, perchè noi che guardiamo le tv siamo ormai complici. Nel panorama in arrivo, il reality fa già la parte del leone, afferra e magia quel che trova.
Accadono in periferia, diciamo pure, cose strane ma utili, significative. E tu chiamale, se vuoi, realtà.
ITALO MOSCATI