Il reality è morto perchè non è più trash
Soltanto fino a qualche tempo fa ci si accaniva un po’ tutti a tacciare il reality di trash, un appellativo abusato ma fortemente vitalistico. Il reality era trash quando Katia Ricciarelli accettava una lauto cachet per co-abitare coi lelemoriani in Fattoria (canto del cigno con l’atto finale del Triccheballacche), era trash quando il naufrago Al
Soltanto fino a qualche tempo fa ci si accaniva un po’ tutti a tacciare il reality di trash, un appellativo abusato ma fortemente vitalistico. Il reality era trash quando Katia Ricciarelli accettava una lauto cachet per co-abitare coi lelemoriani in Fattoria (canto del cigno con l’atto finale del Triccheballacche), era trash quando il naufrago Al Bano veniva mollato dalla Lecciso in diretta tv, era trash quando Taricone fermava l’Italia con il suo manuale da tombeur de femmes di nuova generazione. E ora, invece, accogliamo ancora una volta l’appello di Walter Siti, docente universitario e personaggio di cultura nonchè esperto di piccolo schermo, che sull’ultimo numero di Vanity Fair sentenzia sulla morte del reality chiedendosi se c’è ancora una possibilità per salvarlo come genere di nicchia, con meno profitto e più scandaglio sociologico.
Nello specifico, non poteva che prendere ad esempio il caso di Uno due tre… stalla! che ha scongiurato il rischio di chiusura anticipata con un totale stravolgimento della formula originaria:
“Le prime due puntate avavevano offerto alcuni buoni spunti di confronto tra culture… C’era speranza che perfino le ragazze avrebbero cominciato a differenziarsi, e che… sarebbe emersa qualcuna con una stora più individuale e un abbozzo di personalità. Poi è accaduta la catastrofe, perchè sia la Endemol che Mediaset hanno interpretato come catastrofe la perdita di quattro punti di share. Il programma ha cambiato fisionomia, è diventato un talk-game… La D’Urso, in affanno, ha dovuto spiegare che il cambiamento è avvenuto per ragioni interne alla vita della fattoria. Non ci credeva neanche lei a quello che stava dicendo, si vedeva chiaramente. Gli autori si sono trovati prigionieri di un cast messo insieme per altri scopi, e nella necessità di utilizzarlo contropelo”.
Dunque, il reality non esiste più per un equivoco di fondo, che vede gli investitori premere sull’acceleratore perchè abbagliati dai fasti di una volta. E invece i grandi ascolti non possono essere più garantiti, a causa dell’iterazione esasperata di meccanismi triti e ritriti, che hanno dimezzato il pubblico di questi programmi fidelizzando soltanto i telemaniaci più incalliti e non più la larga platea generalista.
Dunque si opta per la formula del comedy show, del comedy game, del reality-comedy eccetera eccetera, una serie di mistificazioni che, anzichè consentire realmente un’evoluzione del genere, ne hanno sancito il definitivo trapasso. La morte del reality come prodotto televisivo globale è avvenuta con La Pupa e il secchione che, meriti fenomenologici a parte, ha avuto degli ascolti modesti, relativi a un certo target e agli obiettivi di una rete giovanile. Da allora, è stato tutto un susseguirsi di Spose Perfette e Vallette-contadine che hanno confermato la riduzione del bacino di utenza e una deviazione del raggio di azione.
Dei reality si continua e si continuerà a parlare per una predisposizione al dissenso alimentata dal genere, ma i discorsi critici non potranno che stridere con le nuove trasmissioni erroneamente ascrivibili al settore.
Non a caso, prosegue Siti,
“La crisi ci insegna che le vicissitudini produttive sono la sola cosa indicibile nei reality, il loro vero mistero. Per l’isteria di chi ci mette i soldi i format sono intercambiabili, e qualcunque discorso si deve interrompere se il profitto on è immediato. Ciò che è veramente serio e non-stereotipo è un inciampo per il successo e il concetto di serietà in un reality coincide con la vendibilità. I reality, così come sono pensati nell’attuale sistema produttivo, non sono una forma narrativa ma soo l’opposto della narrazione”.
Dunque, la Stalla si è ripresa (senza fare il botto) perchè offre un certo tipo di intrattenimento becero appartenente allo stesso filone di Distraction o di Buona Domenica più che dell’Isola dei famosi.
Mentre il reality puro, stando alle parole di Siti che ne rivendica l’essenza espressiva, non è un genere popolare e lo è ingannevolmente diventato per il miraggio economico coltivato dai produttori, che lo hanno via via trasformato in qualche altra e più ibrida soluzione televisiva.
Interpretazione, la seguente, pienamente avvalorata dal bilancio di Aldo Grasso dell’ultimo Gf appena conclusosi.
“Se l’immagine del Grande Fratello si è appannata significa che qualcosa non funziona più, forse si è rotto quel meraviglioso paradosso culturale che permetteva a tutti di vedere il reality ma solo per parlarne male. Quello è la vera essenza del programma: la realtà come videogioco, il sogno di una seconda vita, il piacere perverso dell’essere guardati dagli altri, sorvegliati. Sette edizioni sono tante e non c’è nulla come la reiterazione dell’imprevedibile per renderlo banale. Di qui l’importanza del conduttore, che è un specie di joystick incaricato di creare legami telescopici. Daria Bignardi era perfetta nel legittimare una materia ritenuta a torto bassa, era una chiave di lettura per interpretazioni non banali. Barbara D’Urso aveva invece impresso una svolta sul popolare e sull’affettivo: meno esegesi ma più contatti fisici. Alessia Marcuzzi voluta dal marketing che chiedeva più freschezza al programma non ha saputo dare una sua fisionomia. La sua indeterminatezza è l’indeterminatezza attuale del Grande Fratello”.
Un programma che non fa più opinione, ma stando ai risultati concreti continua a rappresentare una garanzia di introiti economici e commerciali. Paolo Bassetti, presidente di Endemol Italia, lo ha paragonato non a caso a un maratoneta con una grande tenuta, capace di resistere alle difficoltà in una stagione lunga e difficile. Per il futuro, è prevista una selezione di potenziali concorrenti per mestieri, non scelti attraverso casting isolati ma prelavati direttamente sul campo… Ma per ora resta solo un’idea. L’unica cosa che conta è che il Grande Fratello (o quello che ne è rimasto) continua, anche senza Alessia Marcuzzi sulla cui conferma si è steso un velo che lascia spiragli per Paola Perego. Il cammino verso il baratro è ancora lungo e inesorabile, ma parlare di trash, categoria nobile, è roba passata.