Home Canale 5 Il Patriarca, lo sceneggiatore Mizio Curcio: “Una serie su ciò che è cattivo, ma non per emularlo. Rosy Abate 3? Vi dico che…”

Il Patriarca, lo sceneggiatore Mizio Curcio: “Una serie su ciò che è cattivo, ma non per emularlo. Rosy Abate 3? Vi dico che…”

Dalla scelta di raccontare la storia di un “cattivo” alla difficoltà di trattare temi legati alla malattia, fino al futuro, ovvero la serie tv Maria Corleone. E, ovviamente, le possibilità di Rosy Abate 3

27 Aprile 2023 09:00

«Se oggi uscissero al cinema in contemporanea il nuovo Batman e il nuovo Joker, secondo te chi incasserebbe di più al botteghino? Non mi meraviglierebbe se la scelta cadesse sul nuovo Joker». Inizia così la riflessione con cui Mizio Curcio, uno degli sceneggiatori (insieme a Sandrone Dazieri e Paolo Marchesini) de Il Patriarca, ci racconta la genesi della nuova serie tv di Canale 5 con Claudio Amendola, in onda per sei prime serate ogni venerdì.

Una storia, quella prodotta dalla Camfilm di Camilla Nesbitt e da Taodue, che come abbiamo scritto nella nostra recensione “ribalta” l’idea di crime della tv generalista, mettendo al centro un cattivo (Nemo Bandera, interpretato da Amendola), la sua idea di giustizia ed i suoi sforzi per continuare indisturbato le attività illecite che gli hanno permesso di costruire un vero e proprio regno.

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«Siamo tutti affascinati dal cattivo, dalle sue sfumature e dai suoi obiettivi. Ciò non vuol dire che vorremmo emularlo, ma “goderci” il suo spettacolo. Nasce tutto dal capolavoro di Mario Puzo e Coppola, quel “Il Padrino” che personalmente mi ha segnato fin dalla sua prima visione. Al centro del racconto ci sono le dinamiche della famiglia Corleone, la Polizia – per di più corrotta – è solo una linea marginale del racconto, un ostacolo da aggirare. Il pubblico riconosce in Don Vito e nell’ascesa criminale di Michael il driver da seguire e per cui fare il tifo. Chi non fa il tifo per i Corleone mente. Questo vuol dire che siamo “cattivi” perché ci piacciono i cattivi? Assolutamente no. Il nostro compito è intrattenere, far appassionare, raccontare personaggi: e come dicono in America “ogni santo ha un passato, ogni peccatore ha un futuro”. Per empatizzare con il cattivo devi umanizzarlo, renderlo fragile, metterlo in discussione e contrapporgli qualcuno più cattivo di lui. In questo modo il pubblico ti seguirà, perché riconoscerà che molto spesso il tuo protagonista è costretto a macchiarsi per difendere i propri cari o per punire chi è più malvagio di lui. Rosy Abate, che è diventata un’eroina nazionale, non è certo la brava ragazza della porta accanto. Ma perché il pubblico la ama? Perché è prima di tutto una mamma, una compagna, una donna che a sua volta combatte le ingiustizie, una leonessa disposta a tutto per sopravvivere in una savana piena di insidie. Il nostro Nemo Bandera è un Patriarca, un Pirata che si è fatto strada attraverso l’illegalità. Oggi ha scoperto di essere malato, e il suo unico obiettivo è scegliere l’erede che meglio possa continuare la dinastia dei Bandera. Vorrebbe farsi da parte, ma la minaccia di qualcuno più spietato di lui lo costringe a tornare sul campo. Nemo è un cattivo? Sì, ma è un uomo pieno di sentimenti e valori. Il primo omicidio che commetta nella serie è la reazione alla perdita della moglie di cui un poliziotto corrotto è in qualche modo responsabile. Dunque Nemo si erge a giustiziere, e pagherà per questo».

E il pubblico ha reagito bene alla storia che state raccontando: abbiamo finalmente superato quelle polemiche post-Gomorra, in cui si accusava la rappresentazione del male in tv di voler rendere il male stesso affascinante?

«Cito spesso il capolavoro del mio produttore Pietro Valsecchi, “Il capo dei Capi” che ben prima di Gomorra e Suburra ha raccontato la scalata di uno degli uomini più spietati del nostro paese. In quel caso aveva inserito un personaggio d’invenzione, il poliziotto Schirò che dava la caccia a Totò Riina, cresciuto anche lui a Corleone. Il protagonista tecnico era lui, ma è innegabile che alla storia è passata l’interpretazione di Claudio Gioè e la sua scalata criminale. Anche in quel caso – come nel Patriarca o in Rosy Abate – il messaggio è sempre lo stesso: chi vive male non si gode i frutti della sua malvagità, ed è destinato a marcire in carcere o a finire brutalmente assassinato».

Il Patriarca è anche un dramma familiare che mette al centro il tema della malattia, fino ad oggi affidato a personaggi secondari. In questa stagione tv, oltre ad Il Patriarca, anche Fiori Sopra l’Inferno ha mostrato una protagonista alle prese con i primi sintomi dell’Alzheimer. Raccontare la malattia non più come qualcosa di eccezionale ma come condizione tristemente ordinaria fa parte di una nuova sensibilità a cui si sta aprendo il mondo delle serie italiane?

«Inutile dire la difficoltà e la delicatezza con la quale vanno affrontati certi temi. Per la scrittura del “Patriarca” insieme a Claudio Amendola abbiamo avuto più incontri con uno staff di medici esperti della materia. Entrare in contatto con problematiche così serie non è stato facile. La perdita della memoria a breve termine, il distacco graduale dalle persone care e da se stessi sono alcuni degli elementi che abbiamo provato a calare all’interno della fiction, cercando di essere quanto più fedeli alla realtà».

Anche la scelta di Claudio Amendola come protagonista è insolita, lui che invece in tv è sempre stato associato a personaggi rassicuranti (vedi I Cesaroni e Nero a metà)… Come si è arrivati a scegliere lui?

«L’intuizione nasce da un confronto tra Mediaset e la nostra produttrice Camilla Nesbitt: la scelta è caduta subito su Claudio Amendola, che del resto al cinema ha interpretato spesso personaggi cattivi e tormentati come Nemo Bandera (vedi tra i più recenti il ‘Samurai’ di “Suburra”). E che l’idea fosse giusta lo dimostra l’entusiasmo con cui Claudio stesso ha accettato la proposta».

Tra l’altro, Amendola è anche regista di tutti gli episodi della serie: come se l’è cavata in questo doppio compito, che rapporto ha avuto con voi sceneggiatori nel costruire le scene?

«Lavorare con Claudio è stata un’esperienza formativa da tanti punti di vista. E’ uno stakanovista, che ci mette il cuore e la “pancia”… In tutti i sensi: alcune riunioni le abbiamo fatte nel suo ristorante, e capitava spesso che i clienti ascoltassero le nostre discussioni. Quando avevamo dei dubbi non abbiamo esitato a coinvolgerli: “voi cosa ne pensate?”. Il nostro motto è sempre stato: non stiamo scrivendo una cosa che deve piacere a noi, ma al nostro pubblico. Ecco, il suo ristorante era diventato una sorta di test marketing…’ alla vaccinara’!»

Sempre Amendola ha detto (a Tv Sorrisi e Canzoni) che se il pubblico dovesse gradire la prima stagione, in autunno potreste girare Il Patriarca 2, confermi?

«Senz’altro: la seconda stagione è già stata scritta e le riprese cominceranno a breve».

Il Patriarca è remake della serie spagnola Vivere senza permesso. Vorrei soffermarmi sul fatto che sempre più serie italiane provengono da format stranieri: penso a Noi-La serie, a Studio Battaglia ed a Call My Agent Italia. Stiamo imparando ad ascoltare di più cosa viene da fuori o sono le storie ad avere ormai un carattere internazionale e quindi a poter essere più facilmente adattate altrove?

«Vivir Sin Permiso, al di là di alcune connotazioni geografiche tutto sommato marginali, è una storia assolutamente universale; il problema è stato adattare il formato originale (13×75’) al nostro ‘taglio’ di 12×50’. E d’altra parte è proprio seguendo con attenzione le produzioni internazionali che si scoprono progetti interessanti come quello di Aitor Gabilondo».

L’ultima fiction a cui hai lavorato e che è andata in onda è stata Rosy Abate: era il 2019, nel mezzo c’è stata una pandemia ed una guerra. Da sceneggiatore, questi eventi che hanno inevitabilmente cambiato il mondo hanno modificato e modificheranno anche il modo di raccontare le storie per il piccolo schermo?

«Per cambiare le storie dovrebbe prima cambiare profondamente il nostro modo di vivere, e credo sia ancora presto per dire se questo sia successo. Ma da un punto di vista produttivo l’impatto della pandemia si è avvertito negativamente».

Anche lo stesso genere poliziesco sta conoscendo profonde mutazioni in questi anni: andremo sempre di più verso storie in cui il bianco e il nero lasceranno posto alle zone grigie in cui buoni e cattivi non saranno più così facilmente distinguibili?

«Credo e spero di sì: del resto negli Usa le serie poliziesche con eroi negativi come “The Shield” o “Shades of blue” sono già in produzione da anni».

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Dovevamo parlare de Il Patriarca, ma alla fine Rosy Abate è un argomento di cui non si può non parlare. Ci siamo lasciati con una seconda stagione che lasciava aperta qualche porta per un eventuale seguito, anche se Giulia Michelini si era ripromessa di voler “resistere alla tentazione di una terza stagione”. Le cose sono cambiate?

«Io e Giulia ci siamo incontrati spesso dopo la fine della seconda stagione. Ormai dovresti saperlo, con Rosy Abate… “mai dire mai”!»

In attesa di scoprire se rivedremo la Regina di Palermo, a settembre Canale 5 manderà in onda Maria Corleone, di cui hai scritto la sceneggiatura e con protagonista Rosa Diletta Rossi: cosa ci puoi anticipare?

«“Se una cosa la vuoi nascondere mettila in mostra”. Questo è il motto di Maria Corleone, una giovane stilista che si trasformerà in una pericolosa ‘madrina’ mafiosa. La serie nasce da un confronto col produttore Pietro Valsecchi e dalla domanda secca emersa in una riunione: possibile che un business da 100 miliardi annui come il Made in Italy non abbia mai attirato l’attenzione delle mafie?»

Quando hai scritto Maria Corleone, hai pensato che potrebbe diventare l’erede di Rosy Abate o pensi che il pubblico potrebbe recepirla in questo senso?

«Spero che ne replichi il successo, ma Lady Corleone ha un background diverso: è una stilista educata al bello. Il conflitto tra l’essere la figlia di un pericoloso boss (Fortunato Cellino) e la sua carriera nella moda è una bomba pronta ad esplodere».

Il poliziesco è il genere che più ti appartiene, ma hai anche scritto una serie sovrannaturale (Il Tredicesimo Apostolo) ed hai scritto il secondo film de I Soliti Idioti, quindi una commedia. Ti piacerebbe tornare ad esplorare questi generi?

«In realtà lo sto già facendo. Sto lavorando a diversi progetti per un’importante piattaforma, in più ho finalmente finito di scrivere il mio primo romanzo. E’ appunto una “commedia paranormale”, in cui i napoletani una mattina come tante si svegliano… scoprendo che l’isola di Capri non c’è più!»

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