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Il Collegio, un “collage” di vite che parla al futuro con i verbi al passato

Il resoconto al termine della quinta stagione del docu-reality di Rai 2.

16 Dicembre 2020 09:35

Buffo che una scuola faccia scuola. In tv è accaduto già vent’anni fa, all’alba dei talent show, con la prima classe di canto, ballo e recitazione di Amici, che ha codificato le regole di un genere. Il prodigio si è ripetuto recentemente con Il Collegio, reality firmato Rai 2 e prodotto da Banijay Italia, che dal 2017 consente a un gruppo di ragazzi di viaggiare nel tempo, indossare divise appartenute a nonni e genitori e vivere un’esperienza di studio fra lezioni e compiti in classe.

Alla trasmissione, giunta alla quinta edizione, va infatti riconosciuto il merito di aver cambiato le sorti avverse del modello, da troppi anni privo di stimoli, abbandonato ai suoi cliché. Posto che il docu anticipa il reality solo nell’etichetta formale, il vero show non passa mai in secondo piano. Con l’ultima stagione, che si è conclusa martedì, si è data prova che la strategia migliore per assicurarsi l’affetto del pubblico e la longevità nel palinsesto è filtrare gli eccessi e mettere lo spettacolo al servizio di un’esigenza, non l’opposto. Che per i partecipanti non è solo quella di diventare piccoli influencer, ma di rappresentare con la propria voce una generazione troppo spesso lasciata in silenzio. Non solo fabbrica di piccoli Ferragni, ma megafono di storie, parole, espressioni. Non è necessario infiocchettare situazioni al limite del logico: è la materia grezza, saggiamente scolpita dall’opera degli autori, ad offrire un intrattenimento inedito di qualità.

L’estensione de Il Collegio (che negli anni ha raddoppiato il numero di puntate per stagione) ha concesso alla scrittura di prendere respiro, ai telespettatori di conoscere meglio i protagonisti della trasmissione, che nell’ultima edizione hanno seguito un percorso disciplinare ed umano più lungo e tormentato. Nelle dinamiche di espulsioni e ritiri, la quinta de Il Collegio è stata infatti la stagione più vicina all’idea tradizionale di reality, con oltre il 35% dei partecipanti che non sono giunti all’ultima puntata. Nessun divide et impera da parte della produzione e del corpo docenti, nessuna presa di posizione dei “grandi”, ma una pressione utile ai ragazzi in quel processo di formazione che è tipico della scuola, ma anche della letteratura ottocentesca e della narrazione dei reality, qui tramata con perizia. Chi sbaglia paga, anche chi riesce a ritagliarsi un ruolo da protagonista; chi non si evolve rimane a secco, senza quel diploma che è il simbolo di conquista, di rivalsa, di maturità. Una lezione mai banale, che assume ancora più valore nell’unico vero programma di richiamo per gli adulti del domani.

Nelle parole di commiato di Giancarlo Magalli, insostituibile voce narrante del programma, il senso profondo dell’istituzione scolastica e la speranza di poter rivedere presto i ragazzi fortunati del 2020 tra matite, sospiri, sorrisi e paure. Senza mascherine:

La scuola non insegna solo a studiare, ma è condivisione, divertimento, curiosità, confrontarsi e misurare i propri limiti. Aiutare ed aiutarsi, è un mondo necessario nel quale per ogni ragazzo è indispensabile vivere. Stiamo aspettando che tutto torni come prima, perché prima o poi tutto tornerà come prima, e i banchi si riempiranno di nuovo di vita come nel 1992. Come è stato bello vederli così.