Il clan dei camorristi – Francesco Di Leva è Ciccio Capuano, l’intervista di TvBlog
Questa sera va in onda l’ottava e ultima puntata de Il clan dei camorristi. Al centro delle ultime puntate abbiamo trovato Ciccio Capuano, interpretato da un bravissimo Francesco Di Leva. TvBlog intervista l’attore.
Questa sera va in onda l’ottava e ultima puntata de Il clan dei camorristi, imperdibile per chi ha seguito la fiction durante tutte queste settimane. Al centro delle ultime puntate abbiamo trovato Ciccio Capuano, interpretato da un bravissimo Francesco Di Leva, che trovandosi con le spalle al muro e credendo di essere stato tradito dal suo amico di sempre, quasi fratello di sangue, O’Malese, decide di parlare con il giudice Esposito, aprendo finalmente la giusta pista per le indagini del magistrato. Proprio per questa sua centralità nelle scene delle ultime puntate, quella di oggi compresa, abbiamo deciso di fare due chiacchiere proprio con Francesco, che in questi giorni è impegnato su un altro set, quello del film I milionari di Alessandro Piva.
Lo chiamo durante una pausa delle riprese, e con lui non solo analizzo gli aspetti caratterizzanti del suo personaggio e del Clan dei camorristi, ma analizzo la situazione di quella terra che lui, da campano, ben conosce e che lo ha anche portato a mettere in piedi, insieme ad altre persone, il NestT, una sorta di laboratorio teatrale che consente ai giovani del suo quartiere (San Giovanni a Teduccio, periferia orientale di Napoli) di avere un’alternativa alla strada e alla camorra.
Per Di Leva quella de Il clan dei camorristi è stata la prima lunga esperienza televisiva, dopo importanti impegni cinematografici e spettacoli teatrali. Basti pensare a Gomorra, lo spettacolo teatrale di Roberto Saviano, che lo ha visto per tre anni consecutivi in scena, o a film di successo che gli sono valsi premi importanti e una nomination ai David di Donatello.
Intanto complimenti, perché nei panni del cattivo sei bravissimo, fai davvero paura. Cosa si prova a interpretare un personaggio così negativo come Ciccio Capuano?
Per un attore c’è sempre un certo fascino ad interpretare un cattivo. Nei panni del cattivo ti puoi permettere tante cose, è divertente, non mi chiedere il perché, non te lo so dire. Certo è che nel nostro cinema hanno fatto la storia tanti attori che hanno interpretato personaggi cattivi, per dirne uno Al Pacino. Ed è un fascino che si prova sia come spettatore che come attore, lo possiamo forse definire il ‘fascino del male’, ma è comunque qualcosa che non ti spieghi.
Come ti sei preparato per vestire i panni di un boss così particolare?
Mi sono preparato ricostruendo le fasi di quella che poteva essere la vita di un boss, che già era pazzo e poi peggiora col tempo con l’uso della cocaina. Ho puntato molto sul fatto che un personaggio del genere, nella sua follia, quando si trova davanti un problema vuole eliminarlo a tutti i costi. E ho giocato molto sulla imprevedibilità di Capuano, che col tempo aumenta. Basti pensare alle ultime puntate, dove lui si convince di essere stato tradito dal Malese, ma così non è. È Russo che gli ha dato dei segnali che poi Capuano interpreta in maniera sbagliata, per via della sua follia e della cocaina.
Ti sarai accorto che il tuo personaggio ha riscosso grande successo. Non credi si corra il rischio di mitizzare un po’ i delinquenti?
Non credo. Se si analizza bene la fiction si vede che hanno fatto tutti una brutta fine, come poi accade anche nella realtà. Tra questi boss della camorra non ce n’è uno che si sia poi goduto i beni conquistati con le azioni malavitose, ora sono quasi tutti in galera.
Credi che esista ancora un po’ lo stereotipo di un attore napoletano che può interpretare solo un camorrista?
Forse è vero. Credo sia un problema prevalentemente italiano. Non si considera un attore capace di poter fare anche altre cose rispetto a quelle che ha sempre fatto. Quindi se uno ha fatto il malavitoso, perché magari è scuro, ha lo sguardo truce, continuerà a fare il cattivo. Se uno è alto, biondo e con gli occhi di ghiaccio allora fa il figo. A volte nei registi manca il coraggio, oppure proprio non c’è il tempo. Ti faccio un esempio: ora sto girando il film I milionari, e appena io e il regista, Piva, abbiamo provato a dire ‘facciamo una trasformazione’, al trucco e parrucco cominciano ad agitarsi, il produttore si preoccupa del tempo che si va a perdere, sono tutta una serie di cose che poi fanno sì che la parte artistica venga a mancare. Si pensa ai tempi, ai costi, e magari poi al resto. Invece, forse, i registi dovrebbero osare un po’ di più.
A questo proposito, veniamo al dialetto che si è utilizzato nella fiction. Qualcuno se ne è lamentato dicendo che non è comprensibile. Tu cosa ne pensi? Credi fosse inevitabile per dare verità alla storia?
Io credo che in questa fiction si sia utilizzato il dialetto nella giusta misura. Andava utilizzato nella misura in cui a parlare tra loro erano dei camorristi, per rispettare la realtà dei fatti, ma non esagerando per far sì che potesse capire anche chi non è napoletano. Queste poi sono anche le esigenze di una fiction che deve essere vista da tutti. Poi è chiaro che al cinema si può invece operare diversamente, come ad esempio è accaduto con Gomorra o con Reality, dove uno anche all’estero va a vedere il film e trova i sottotitoli. Poi noi in Italia non siamo abituati ai sottotitoli, e quello è un altro discorso.
C’è poi stata qualche polemica da parte di politici che non hanno gradito si parlasse della tua terra, ancora, in termini di camorra. Ma è comunque una realtà, ed è stata raccontata bene dal Clan. Come hai vissuto da napoletano questa cosa?
Vorrei rispondere con un’altra domanda, in realtà: Quale è l’alternativa? L’alternativa è non parlarne, rimanere ancora più chiusi nel nostro mondo, mentre la camorra continua ad esistere e a operare. Per combattere un cancro bisogna conoscerlo e prevenirlo, la stessa cosa vale per la camorra. Il fatto che le persone conoscano la camorra, fa sì che possano anche difendersi da essa. Se Roberto Saviano non avesse scritto Gomorra e noi non fossimo quindi venuti a conoscenza di tutto quello che ha raccontato, probabilmente gli imprenditori del Nord farebbero ancora affari con la camorra, con la scusa di non sapere. Ora si può solo fare finta di non sapere. Io abito in un quartiere devastato giornalmente dalla criminalità, e quindi dico che non si può fare finta di nulla, se c’è un problema bisogna parlarne, affrontarlo.
Il tuo personaggio in queste ultime puntate è stato un po’ la chiave di volta di tutta la storia e delle indagini. Hai sentito su di te il peso di questa responsabilità mentre recitavi?
Quando recito cerco di immedesimarmi del tutto col personaggio, cerco di stare sempre nella verità. E quindi anche in questo caso ho cercato di abbandonarmi completamente al personaggio, senza pensare troppo a quello che c’era intorno. Forse ci ho pensato prima, quando ho letto la sceneggiatura, ma non durante le riprese.
Per te che hai fatto soprattutto cinema e teatro, come è stato trovarsi a lavorare da protagonista in una fiction così lunga e quindi immagino anche dai tempi di lavorazione lunghi?
Mi sono trovato bene, anche perché facendo teatro mi capita di stare fuori casa per sei o sette mesi, o di provare per due mesi dalle due del pomeriggio alle dieci di sera, con un lavoro costante, quotidiano, sui personaggi e sull’attore. Poi io sono un panettiere e quindi abituato a lavorare di notte e duramente, conosco bene la fatica del lavoro manuale…
A questo proposito, leggendo una tua intervista lo avevo già scoperto e volevo appunto chiederti quanto è stato difficile dividerti tra questi due lavori, l’attore e il panettiere e raggiungere i risultati che poi hai raggiunto nel mondo della recitazione?
Non è stato difficile perché io volevo tantissimo diventare un attore. I sacrifici, quindi, neanche mi pesavano più di tanto. Il lavoro del panettiere mi consentiva di investire in benzina per andare a Roma a fare i provini, in un corso di teatro, e così via. Insomma, un lavoro diventava funzionale all’altro.
E so anche che sei il fautore di un progetto molto bello per i ragazzi della tua terra, il NestT. Ce lo racconti?
Insieme a dei colleghi conosciuti durante lo spettacolo teatrale Gomorra, abbiamo deciso di prendere un locale nella periferia di Napoli e di creare un teatro investendo le nostre risorse. Poi il Comune dopo un po’ ci ha assegnato quei locali, e abbiamo iniziato a fare dei progetti con e per i bambini, come una piccola costola di un’associazione più grande che si chiama Gioco, Magia e Parole, che lavora nel territorio da sedici anni. Abbiamo come obiettivo quello di dare qualcosa a dei bambini che non hanno alternative in un quartiere disagiato. Quindi noi teniamo le porte aperte per qualsiasi ragazzino voglia vedere, capire e conoscere cosa è il teatro. Facciamo anche altre iniziative, come spettacoli teatrali, corsi di fotografie, tante altre cose. Diamo una speranza a questi ragazzi.
Nel 2011 hai avuto l’ambitissima nomination al David di Donatello. Che ricordo hai di quel momento?
Un ricordo bellissimo, così come del premio Biraghi a Venezia o del premio dell’associazione L.A.R.A. al festival di Roma. Delle emozioni grandissime che io auguro davvero a tutti gli attori della mia generazione, è come ricevere una pacca sulla spalla, capire che stai lavorando bene e avere un piccolo riconoscimento dopo tanta fatica.
Per chiudere e salutarci, cosa ti auguri per la tua carriera artistica?
Mi auguro di continuare a fare questo lavoro, soprattutto in prodotti di qualità. Intanto dal 24 al 28 aprile sarò nuovamente a teatro, al Teatro Nuovo di Napoli, con lo spettacolo Dodici baci sulla bocca, e vi invito a venire a vedermi.
Il clan dei camorristi – Francesco Di Leva è Ciccio Capuano