Hanno ucciso l’Uomo Ragno serie tv, la recensione: il folle viaggio di Sydney Sibilia restituisce due portatori sani di adolescenza
Sydney Sibilia, abituato a raccontare storie con la lente della straordinarietà, con la sua prima serie tv fa l’inverso e partendo dalla leggenda degli 883, costruisce una storia in cui amicizia e musica hanno lo stesso peso, e Pezzali e Repetto diventano atleti del salto ad ostacoli della sfiga
Due ragazzi, la provincia e la fama, andata e ritorno. Riassunto così, Hanno ucciso l’Uomo Ragno, la serie tv Sky Original, potrebbe sembrare una serie ordinaria, così come sembrano esserlo i due protagonisti. L’apparenza, però, inganna: quello che Sydney Sibilia ha pensato e messo in scena in otto episodi è un viaggio meravigliosamente folle tra ricordi, sensazioni, ambizioni e superpoteri di chi ha sempre avuto i piedi per terra. E, alla fine, quella che è stata presentata come “la leggendaria storia degli 883” è diventata una delle cose migliori che vedrete in tv quest’anno.
Hanno ucciso l’Uomo Ragno serie tv, la recensione
A stupirci, nel vedere tutti e otto gli episodi in anteprima, è la quantità di livelli lungo cui si articola tutta la serie. Sbaglia chi pensa che questa è semplicemente il racconto di come Max Pezzali e Mauro Repetto hanno formato gli 883. Hanno ucciso l’Uomo Ragno regala al pubblico un viaggio che non cade nella trappola della facile nostalgia, ma costruisce un percorso emozionale intergenerazionale, che prende i personaggi e li lascia solo appoggiati al contesto storico in cui si muovono.
Mauro, Max, Cisco e tutti gli altri personaggi non vivono, nella serie, in funzione dell’epoca in cui si trovano, ma in funzione al loro volersi sentire parte di qualcosa di più grande di loro, a cui sentono già di appartenere, pur non avendo ancora chiaro cosa sia. In un mondo in cui le serie tv partono giustamente in quarta chiarendo immediatamente i connotati di propri personaggi, Sibilia spiazza tutti con dei ruoli dai contorni ancora sfumati, che qualcosa sanno già, ma non tutto. E che siano anni Novanta, Duemila o Duemilaventi, questa è una sensazione che ogni generazione deve attraversare.
L’universalità dei valori di cui la serie si fa portavoce è uno dei motivi per cui Hanno ucciso l’Uomo Ragno può essere seguita e apprezzata sia da chi quel decennio l’ha vissuto che da chi lo ha scoperto dopo. In fin dei conti, la storia è stata impostata per poter essere fuori dal tempo: d’altra parte, le leggende sono questo, storie che travalicano i confini temporali per diventare sempiterne.
Portatori sani di adolescenza
Fuori dal tempo, i temi dell’adolescenza diventano un linguaggio che non ha bisogno di traduzioni. Non c’è dissing o cringeness che tenga: le vite di tutti sono accomunate da questa fase in cui le incertezze sono più delle certezze. E Max e Mauro (sublimemente interpretati da Elia Nuzzolo e Matteo Oscar Giugglioli) rappresentano bene questa condizione, anche se ai poli opposti: se Max è un eterno insicuro, pronto a fare un passo avanti ma solo dopo averne considerato ogni conseguenza, Mauro al contrario di passi ne fa anche più di uno per volta, pur non sapendo in qualche direzione sta andando.
Prima ancora di diventare gli 883, Pezzali e Repetto sono raffigurati come portatori sani di adolescenza: affamati di futuro e di desideri, la loro presa verso ciò che vorrebbero non è mai sicura. Eppure, in qualche modo, ce la fanno. Come tutti noi che, oggi, ricordiamo quegli anni domandandoci come diavolo ce l’abbiamo fatta a superarli. Con loro, Silvia e Cisco, gli altri due adolescenti della serie, la prima costretta a guardare un futuro di cui ha paura, il secondo con uno sguardo al passato che rischia di dargli una visione distorta di ciò che sarà.
La vera amicizia? È come la musica
Ma dove sta il segreto della riuscita di questa serie? Il trucco, se vogliamo chiamarlo così, di Sibilia (che ricordiamo l’ha ideata e co-prodotta con la sue Groenlandia, oltre ad aver diretto i primi due episodi), è stato quello di mettere sullo stesso piano i due ingredienti principali del successo degli 883: la musica e l’amicizia.
Senza l’una, non ci sarebbe stata l’altra. Max e Mauro non sono solo due artisti emergenti che trovano il successo con le loro canzoni, ma sono soprattutto due amici che hanno un sogno in comune: fuggire dal rischio di essere inglobati da una provincia che sta loro troppo stretta. E la musica è la loro carta per uscire gratis da quella che considerano una prigione.
Hanno ucciso l’Uomo Ragno riesce a creare il giusto equilibrio tra il senso dell’amicizia e il senso della musica per i due protagonisti: una combo che, come nelle mosse più micidiali di uno dei personaggi di Street Fighter, li rende invincibili e davvero dei supereroi. Proprio come potremmo essere noi.
La leggenda che torna a essere umanità
Parlando di questa serie, anche in questa sede, si è spesso usata la parola “leggenda”. Sibilia, anche nei suoi progetti passati (pensiamo a “L’Incredibile storia dell’Isola delle Rose”, alla saga di “Smetto quando voglio” e a “Mixed By Erry”) si diverte a trasformare le proprie storie, cariche di elementi tratti dal vissuto quotidiano -e in alcuni casi ispirati a fatti realmente accaduti-, in storie leggendarie. Con la serie tv sugli 883 il procedimento è stato inverso.
Il regista, sceneggiatore e produttore aveva già davanti a sé una storia diventata leggenda: doveva riportarla a u livello di umanità che ne alimentasse l’empatia con il pubblico. Ecco che, allora, Max e Mauro diventano due atleti specializzati nel salto degli ostacoli della sfiga, pronti a scavalcare ogni impedimento che la vita gli metterà davanti. E, ovviamente, finendo anche per inciampare.
No, Max Pezzali e Mauro Repetto non sono diventati gli 833 così facilmente: la serie quasi mette da parte la necessità di costruire il climax che porterà alla consacrazione del duo (tant’è che gli episodi finali sono quelli che agganciano di meno) per concentrarsi piuttosto sulla costruzione di due personaggi che del leggendario hanno ben poco.
Un’operazione che restituisce quell’umanità che, altrimenti, Pezzali e Repetto avrebbero definitivamente perso, rischiando di risultare inarrivabili. Così non è, perché in Hanno ucciso l’Uomo Ragno a contare è l’ordinarietà di ogni personaggio, capace di diventare straordinarietà e, appunto, leggenda, senza dimenticarne le origini.
Il viaggio folle negli anni Novanta
Infine, gli anni Novanta: come abbiamo scritto, la serie non si aggrappa per fortuna al ricordo forzatamente nostalgico dell’ultimo decennio analogico che abbiamo vissuto. Lo sfrutta, a giuste dosi, cavalcandone alcune mode e personaggi emergenti.
La follia della serie sta anche in questo: ricordarci che quelli sono stati gli anni in cui oltre agli 883 hanno mosso i primi passi artisti come Fiorello, Jovanotti, Fargetta e Albertino. E l’incontro a Pavia tra due giovani Max Pezzali e Maria De Filippi vale da solo la visione del primo episodio.
La visione che la serie ci offre è quella di un decennio -o almeno, della prima metà- che non sa bene dovrà andrà a parare, che cosa porterà di nuovo o che cosa lascerà ai posteri (a differenza degli anni Ottanta, come cantava Raf). Ma la consapevolezza di voler essere un decennio unico e irripetibile, quella c’è. E la storia di due ragazzi di provincia che diventano leggende poteva appartenere solo a questi anni.