Grey’s Anatomy 17, se una serie tv spiega bene che non siamo in un film
Il Covid non è un (tele)film e Grey’s Anatomy ce lo spiega bene unendo finzione e realtà e creando effetti di senso utili contro la pandemia.
Il Covid non è un (tele)film e Grey’s Anatomy 17 si fa sempre più un esempio di reality-tv, di quella che sarebbe piaciuta ad Angelo Guglielmi per la capacità di mescolare realtà e finzione, racconto del contesto e personaggi narrativi. Lo dimostra l’ultima scena della quinta puntata, trasmessa negli USA giovedì 10 dicembre, nella quale Miranda Bailey (Chandra Wilson) dà l’addio alla mamma, affetta da demenza senile e ammalatasi di Covid nella casa di riposo in cui il Capo di Chirurgia l’aveva trasferita, insieme al padre, per averla più vicina a sé. Nel salutare la madre cantando My girl (altra canzone che ormai bannerò dalle mie playlist insieme Somewhere Over the Rainbow nella versione di Israel Kamakawiwo’ole) la Bailey dà tridimensionalità alle vittime della pandemia, così come del resto la stessa Meredith (Ellen Pompeo) aveva fatto fin dalla prima puntata, in quella scena in cui si innervosiva con De Luca (Giacomo Gianniotti) per i tanti pazienti seguiti, conosciuti, ciascuno con le proprie passioni, i propri mestieri, i propri affetti, andati via come numeri e non con la dignità dell’ultimo saluto.
Molti si stanno lamentando della centralità del Covid in Grey’s Anatomy 17: Meredith si ammala nella prima puntata e inizia a vedere vivi e morti sulla sua spiaggia privata, ma le reunion sono davvero un diversivo in una stagione che ha il suo asse portante nel racconto della Pandemia. Un racconto che non può dare quelle risposte mediche innovative per cui la serie è sempre stata famosa grazie a un team di esperti medici che ha suggerito storie pionieristiche diventati i cavalli di battaglia dei chirurghi protagonisti e ha portato sullo schermo casi medici che hanno fatto scuola nel mondo. Non c’è nessuna cura al Covid – anche se un trial, che immaginiamo finzionale, aiuterà Meredith ed è anche utile per tener vivo il suo personaggio con una soluzione in linea con la sua bibbia – e non ci sono (ancora) riferimenti significativi ai vaccini, ma ci sono indicazioni sui parametri cui guardare per seguire l’andamento della malattia.
In uno sviluppo che non può proporre soluzioni mediche, ci si concentra quindi sugli aspetti pratici ed emotivi affrontati nelle corsie – sia pure nella finzione della serialità – da medici e pazienti, gli unici ammessi a percorrerle. Ed è la solitudine della battaglia e ancor più dell’addio a fare da perno al racconto di questa 17esima stagione. Addio, solitudine e impotenza le parole chiave di questa ‘pandemic edition’, che come già accennato riesce ad essere il documento forse più chiaro, nella sua semplicità, della situazione che stiamo vivendo. E che scavalca la scrittura fictional.
La scavalca consapevolmente quando la voice over della Bailey, nel momento dell’addio alla mamma (un addio privilegiato perché può tenerle la mano), elenca persone che non ci sono più e non solo i loro nomi.
“Anche nel momento della morte hanno un volto, non sono solo un letto o una diagnosi. Hanno un nome. Sono più di una statistica, più delle patologie e della provenienza. Sono figli, fratelli, zii che conoscono 5 lingue e gestiscono ristoranti: Wade Klein, 66 anni. Sono bisnonni che amano Broadway: Jacob Lappin, 92 anni. Sono infermieri sorridenti che amano il baseball: Dane Wilson, 45 anni. Sono le madri migliori del mondo e le mogli più amate: Elaine Rose Bailey, 84 anni”.
Nomi che evocano non personaggi finzionali ma persone reali che non ci sono più a causa del Covid, che arrivano sullo schermo con i nomi leggermente variati, come spiega a People Zoanne Clack, la sceneggiatrice della puntata. L’ispirazione è arrivata dalla sua vicenda personale: la madre, malata di Alzheimer, ha contratto il COVID ed è stata tra la vita e la morte; l’idea che potesse essere ricordata solo come una vittima della pandemia e non come una insegnante che aveva avuto un ruolo nella vita di molte persone la faceva letteralmente uscire dai gangheri. Da qui la decisione di inserire nella puntata persone a lei note, morte di Covid e malate di Alzheimer come la madre:
“‘Jacob Lappin è un mix tra Jack Lappin, il bisnonno, e Mitchell Lubitsch, che amava Broadway; Wade Klein è ispirato a Warren Klein, fratello di una delle consulenti mediche della serie, Linda Klein, che è infermiera; Dane Wilson sta per Diane Wilson, un’infermiera nel reparto di Terapia Intensiva di un ospedale di Parigi morta nella prima ondata che ha investito l’Europa”.
E dopo questa ultima scena, fatta di lacrime, canzoni e nomi, scorre una coda irrituale per Grey’s Anatomy con un elenco sempre più ampio di nomi, che a questo punto capiamo non essere solo nomi.
“La lista finale è tratta da un elenco pubblicato In Memoriam degli operatori sanitari morti di Covid sul sito Medscape, che raccoglie le segnalazioni di amici, colleghi, parenti […] È il mio piccolo contributo perché non vengano dimenticate queste persone e le loro vite”
spiega ancora la Clack a People.
Se una sola scena di una serie consumata e ritrita come Grey’s Anatomy centra il punto più di qualsiasi parola detta da chiunque in 9 mesi non lo considero, però, un merito del programma. Ma di certo Grey’s sta ritrovando con la ‘linea Covid’ quello spirito di ‘servizio’ nel racconto della medicina che ormai aveva perso da anni, almeno dalla fine della specializzazione dei ‘magic five’ sopravvissuti.