In questi mesi ci siamo occupati saltuariamente di Grand Hotel Chiambretti, soffermandoci sulle interviste e sui contenuti più eclatanti delle singole puntate. Non abbiamo, però, mai dato abbastanza risalto alla portata dell’ultimo atto della tv di Piero Chiambretti e all’enorme contributo che offre a un nuovo senso di scrittura televisiva oggi.
In molti, quando si tratta di commentare un nuovo programma di Chiambretti, liquidano l’operazione con la secca frase “è il solito Chiambretti”. Ne siamo sicuri? In realtà va dato atto, all’impenitente Pierino nazionale, di essersi riaccostato al mondo della seconda serata con la forza delle idee, più che del budget.
Sembra lontano il tempo del faraonico Chiambretti Night, dove la differenza la faceva la grande star internazionale – che piaceva solo al conduttore – come anche è stato archiviato lo stesso Supermarket, con quell’aria un po’ naif e troppo radical persino per Italia1.
Grand Hotel Chiambretti è la sintesi contemporanea perfetta tra l’eredità della tv di parola e la velocità della nuova televisione, tra il mondo raccolto e pensato della seconda serata e il linguaggio della post-produzione di nuova generazione, che dà un valore iconografico aggiunto ai fiumi del talk. Grand Hotel Chiambretti lo vedi, prima di sentirlo, perché ha un’estetica pazzesca.
Vi sono due momenti liturgici che conquistano e impreziosiscono le interviste del programma: la passerella e gli interventi degli eccentrici opinionisti (irresistibili il chirurgo plastico figlio di papà, il cromatologo e la giornalista trans) che irrompono sulla scena con jingle-tormentoni iconici e commenti penetranti. L’ospite femminile è, sì, spesso al centro di una visione un po’ maschilista, in quanto omaggiata solo per la sua avvenenza e mai per la sua testa, ma Chiambretti è fatto così.
Il conduttore ha recuperato quel gusto del nonsense della tv di Boncompagni e Ghergo, con cui non a caso ha sempre collaborato o collabora, ma l’ha attualizzato con il montaggio imprevedibile alla Italia’s got talent. Questo fa del Grand Hotel un riuscitissimo esempio di evasione catodica pensata, ma al tempo stesso, qua e là, volutamente lasciata in libertà.
Un programma che fa degli irresistibili siparietti di genere tra Chiambretti e Malgioglio – salvo qualche rischio omofobico latente – uno dei pochi esempi di tv vitale di questa stagione al limite della stereotipia. Ogni volta che vedo Chiambretti gestire la gente che va e gente che viene, nel suo Grand Hotel (mentre Malgioglio sfoglia chiccamente Le Figaro), penso che c’è ancora qualcuno che sa farla, la televisione, tra tv generalista tradizionale e quella più ritmata del format. Chiambretti ha, insomma, formattizzato se stesso… da manuale.