Autore di uno dei programmi comici di più successo della nostra televisione di oggi, ovvero Crozza nel paese delle meraviglie, Andrea Zalone ci racconta il suo personale punto di vista sul lavoro di autore televisivo, partendo dalla sua esperienza di scrittore di un programma comico-satirico. Zalone, oltre a partecipare direttamente agli sketch con Crozza nelle vesti di corazziere, ha prestato il proprio volto anche per il cinema e la propria voce come doppiatore in film, soap opera e telefilm. Ha collaborato con Geppi Cucciari, Victoria Cabello, Caterina Guzzanti e la Gialappa’s Band. Cari amici, vicini e lontani, ecco a voi Andrea Zalone.
Lavoro? No! Deformazione mentale
Scrivere per un comico e per un programma comico/satirico è difficile definirlo un lavoro. Credo sia più simile a una deformazione mentale. A una malattia. E in qualche modo a una missione. Provo a spiegarne il motivo.
E’ una missione perché, se vuoi far ridere, sei sempre alla ricerca di un bersaglio da colpire, non con l’intento di ferirlo e distruggerlo, ma con la presunzione di riuscire a cogliere, di quel bersaglio, una verità.
Possibilmente una verità non ancora svelata e che grazie a te (anzi, al tuo contributo) diventi di dominio pubblico.
E’ il meccanismo per il quale, quando vedi un pezzo comico e ridi, ti viene contemporaneamente da dire: “E’ vero! E’ proprio così” oppure “Ma dai, lo penso anche io, ma non trovavo il modo di dirlo”. Quando un pezzo comico (che sia un monologo, una parodia, uno sketch) non rivela alcuna verità, ritengo che faccia meno ridere. Può essere divertente, ma non rimane. Evapora dopo pochi secondi.
Questa ricerca costante e pervicace di “piccole verità da svelare” ti porta, nella vita di tutti i giorni, ad avere un’ossessione, una sorta appunto di malattia: trovarle.
Ho iniziato a scrivere per la Tv quindici anni fa. “Convenscion” di Gregorio Paolini. RaiDue. Centro di Produzione Rai di Napoli. Un’esperienza durata tre anni. Fantastica. Molto di quello che so della Tv lo devo a quell’esperienza e a Gregorio.
Il primo anno aiutavo Beppe Tosco (è colpa sua se faccio questo mestiere) a scrivere i testi. Ero il suo “secondo”. Il suo sparring partner. Sul mio contratto c’era scritto: collaboratore ai testi.
Credo che quella definizione contrattuale sia stato il mio “Imprinting professionale” e contenga l’essenza del mio, imprescindibile, modo di concepire il mestiere dell’autore televisivo: la collaborazione all’interno di un gruppo.Da allora non ho mai smesso di aiutare qualcuno, di collaborare all’interno di un gruppo, anche quando sono cambiate le definizioni contrattuali e ho assunto il ruolo di autore e poi di capo-progetto.
Anche oggi. E lo dico pubblicamente. Io non sono la “spalla” di Maurizio Crozza. Io lo aiuto. Punto.Con Maurizio (direi,soprattutto grazie a lui) in questi anni abbiamo lavorato molto sulla creazione di un gruppo di lavoro che rispondesse al suo modo di fare satira, alla sua concezione della comicità. E’ stata la nostra priorità.
Se “Crozza nel paese delle meraviglie” ha successo, se piace, se le cose che proponiamo funzionano è merito di una squadra autorale che negli anni ha trovato l’affiatamento giusto. Maurizio, io, Francesco Freyrie, Vittorio Grattarola, Alessandro Giugliano, Alessandro Robecchi, Claudio Fois e Luca Restivo siamo, come dice spesso Maurizio, come quelle formazioni calcistiche in cui, certo, c’è il centravanti straordinario che segna gol memorabili, ma ciò può avvenire grazie alla concentrazione e all’energia di tutti i giocatori che sul campo si muovono come un corpo solo.
Aver capito che bisognava investire tempo e energie per la creazione del “Gruppo” credo sia, tra i tanti, il talento migliore di Maurizio. E’ stata la sua battaglia da sempre.
I lunghi mesi di produzione, sono come un’eterna riunione, un lunghissimo brainstorming. Si pensa, si ride, si discute, si scrive, si cancella tutto, si riscrive, si prova, si butta via tutto, si riscrive, si discute, si ride, si litiga, si riprova, si riscrive, si va in onda.
La cosa fondamentale che ho metabolizzato in questi anni è che un autore televisivo deve sempre essere pronto a fare un passo indietro. Quando proponi un’idea o una battuta devi essere disposto a condividerla e ad accettare che gli altri colleghi la modifichino e che a volte la cancellino. Le idee, nel momento in cui vengono condivise all’interno di un gruppo di lavoro, cessano di essere di qualcuno, e, una volta elaborate, diventano armonico racconto del programma.
Condivido in pieno l’analisi di Ugo Porcelli e faccio mio il suo appello a un nuovo Rinascimento Televisivo che parta dalla voglia di investire sugli autori. E aggiungo: sui gruppi di lavoro.
Credo però sia opportuno un cambio di “scaletta” (per usare un termine televisivo) della filiera produttiva di un programma.Troppo spesso la scaletta è questa:
– Un artista firma un contratto con una rete.
– Un produttore esterno alla rete (a volte è l’agente stesso dell’artista) si impegna a produrre il programma.
– Si definisce il budget e l’obiettivo di share.
– Infine – solo alla fine – si coinvolgono gli autori per trovare l’idea. (Se l’idea del programma non è originale ma è l’adattamento di un format straniero la rete e il produttore sono addirittura più contenti, perché pensano di rischiare meno. Se la concessione del format straniero ce l’ha in casa il produttore stesso si rasenta addirittura l’entusiasmo)So che è utopistico e forse ingenuo ma, la butto lì: provare a cambiare la scaletta?
– Coinvolgere gli autori, anzi un gruppo di lavoro (può farlo direttamente la rete o il produttore)
– Investire tempo e denaro perché partoriscano un’idea e un format (tenendo conto delle esigenze della rete)
– Definizione del budget e dell’obiettivo di share.
– Scelta dell’artista giusto a cui affidare il programma e firma del relativo contratto.Paura eh?
Andrea Zalone