Sanremo 2023, il monologo di Francesca Fagnani porta il tema delle carceri al centro dell’Ariston
Francesca Fagnani, co-conduttrice della seconda serata di Sanremo 2023, ha deciso di portare un monologo sulle carceri. Ecco il suo intervento
Francesca Fagnani aveva annunciato oggi in conferenza stampa che avrebbe portato un monologo sulla scuola. Il tema specifico del suo intervento pare essere stato però più specificamente legato al sistema carcerario nel quale finiscono tanti giovani che vivono situazioni di disagio che li spingono all’abbandono scolastico, premessa per l’inizio di un attività delinquenziale che non termina sicuramente con l’esperienza carceraria, che anzi nel maggior numero dei casi porta solo a tornare a commettere reati, spesso anche di maggior gravità, una volta usciti dagli istituti penitenziari.
Francesca Fagnani ha deciso di condividere nel suo monologo quella che è stata la sua diretta esperienza nell’istituto penitenziario minorile Nisida di Napoli, già raccontata anche nel programma di inchiesta Il prezzo, andato in onda nel 2018 su Rai3.
Il testo dell’intervento di Francesca Fagnani
Non tutte le parole sono uguali e non tutte arrivano a noi con facilità. Ci sono parole che per arrivare sul palco di Sanremo devono abbattere muri, grate e cancelli chiuse a tripla mandata. Parole come queste raccolte dentro il Carcere minorile di Nisida, parole scritte insieme ai ragazzi che stanno scontando la loro pena lì e altrove, ma senza cercare la nostra pena perché della nostra pena non se ne fanno niente. Cosa vorreste dire, cosa vorreste chiedere davanti a una platea così importante? “Dottore’, scrivi, intanto due, tre biliardini da Sanremo. Intanto devi dire ad Amadeus che si facesse meno lampade”. Ma no, quello è Carlo Conti. E poi? “E digli che rubare non è il mestiere mio. L’ho fatto una volta e guarda dove sono finito”. E a cosa ti servivano quei soldi? “A fare il brillante, dottore'”. E tu invece, quando scendevi per una rissa, con il coltello in tasca, cosa cercavi? “Era come a dire, guardatemi, voglio esistere anche io”. Non avevi paura mentre facevi una rapina? “Sono cresciuto nervoso, arrabbiato. Chi fa le cose per rabbia non ha paura”, non avevi paura di morire? “E tanto prima o poi…Vogliamo che la gente sappia che non siamo bestie, non siamo killer per sempre, vogliamo che ci conoscano” Quand’è l’ultima volta che hai pianto? “Nemmeno alle elementari piangevo io”. Da quanto non vedi tuo padre che è in carcere come te? “L’ho rivisto adesso, dopo tre anni”. E che effetto ti ha fatto? “Eh mi sono messo a piangere”. Eh, allora vedi che piangi. Hanno picchiato, hanno rapinato, hanno ucciso. Alla domanda perché lo hai fatto non trovano però risposta, risposta che vorrebbero avere, che cercano, che abbozzano, ma la risposta non esce perché è inutile cercarla così, lo sanno. Bisogna andare al giorno prima, alla settimana prima, al mese prima, alla vita prima. Hanno quindici anni e gli occhi pieni di rabbia, occhi pieni di vuoto. Hanno diciotto anni e lo sguardo perso oppure sfidante, hanno occhi che chiedono aiuto senza sapere quale aiuto, senza sapere a chi chiedere aiuto. La scuola l’hanno abbandonata, ma nessuno li hai mai cercati, né la preside, ma neppure gli assistenti sociali che o non ci sono o sono troppi pochi per certe periferie e le madri e i padri – quelli che c’erano – non ce l’hanno fatta. Quando ho intervistato adulti finiti in carcere per reati gravissimi ho chiesto loro: cosa cambieresti della tua vita? Quasi tutti loro mi hanno dato la stessa risposta: “Sarei andato a scuola”. Perché se nasci in quel quartiere, in quel palazzo o da quella famiglia è solo tra i banchi di scuola che puoi vedere la possibilità di una vita alternativa a quella già scritta per te da altri. Lo Stato non può esistere nelle aree più fragili del Paese solo attraverso la fondamentale azione di repressione delle forze di polizia. Lo Stato dovrebbe combattere la dispersione scolastica e la povertà educativa, dovrebbe garantire pari opportunità almeno ai giovani. È una questione di democrazia, di uguaglianza, su cui si fonda la nostra Repubblica. Lo Stato dovrebbe essere più attraente, più sexy dell’illegalità. Avete dei sogni? “Mi piacerebbe andare a Uomini e donne”. Perché? “Perché lì dottore’ fa un’acchiappanza”. Altri sogni? “Io mi pensavo che la felicità si comprava”. Ora che sei qui nel carcere minorile hai fallito tu e abbiamo fallito tutti, ma il tuo destino non è irreversibile, se quando esci da qui trovi un lavoro, rispetti la legge e superi i pregiudizi. Ma se invece non ce la fai e torni in carcere, in quello vero, quello degli adulti, allora sì, lì è davvero finita. Perché in Italia salvo qualche bella eccezione la prigione serve solo a punire il colpevole, non serve a rieducare, ne tantomeno a reinserire nella società chi rientra. Il giorno lo passa sopra un materasso sporco senza fare nulla, in una cella dove dovreste essere in tre invece siete in cinque, dove si cucina nello stesso lavandino dove poi si lavano i denti, proprio sopra il water: lo dico perché l’ho visto. Un autorevole magistrato, al quale dobbiamo essere grati per le inchieste importantissime che coordina, quest’estate in un’occasione pubblica ha detto: “Sono contrario a uno schiaffo in carcere, a uno schiaffo in caserma. Il detenuto non deve essere toccato neanche con un dito. Sapete perché? Per tanti motivi, ma soprattutto perché non deve passare per vittima”. Un detenuto non va picchiato per la ragione che dice lei, cioè per non consentirli di fare la vittima, non va picchiato perché lo Stato non può applicare le leggi della sopraffazione e della violenza che appartengono alle persone che lei giustamente arresta. Se non faremo in modo che chi esca dal carcere sia migliore di come ci è entrato, sarà un fallimento per tutti. E se non ci arriviamo per civiltà, per umanità, per rispetto dell’articolo 27 della Costituzione, arriviamoci per egoismo. Conviene a tutti che quel rapinatore, quello spacciatore, una volta tornato fuori, cambi mestiere.