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Francesca Draghetti della Premiata Ditta: “Oggi la nostra comicità non funzionerebbe. La televisione non mi manca”

Francesca Draghetti a TvBlog: “Nessuno di noi ha mai contato il numero di battute dell’altro. Adesso funziona il comico col microfono in mano, uno sketch con travestimento annesso non lo affronta più nessuno”

24 Novembre 2024 08:48

La storia di un gruppo, di un’amicizia, di un lungo sodalizio, ma allo stesso tempo di quattro carriere indipendenti. L’avventura dei componenti della Premiata Ditta potrebbe essere sintetizzata così. Perché se il brand è ormai finito in soffitta da quasi vent’anni, non si può dire lo stesso del legame che unisce e unirà per sempre i suoi componenti.

Siamo quattro amici che nella vita hanno fatto quello che sognavano e che, per un lungo periodo, l’hanno fatto assieme”, dice a TvBlog Francesca Draghetti, che del quartetto è quella che ha completamente rinunciato ai riflettori degli studi televisivi.

E pensare che fu proprio lei, assieme a Roberto Ciufoli, a gettare il primissimo seme. “Eravamo amici ed entrambi degli scout. La sera ci occupavamo spesso dell’animazione attorno al fuoco. Fu la nostra primissima palestra, inventavamo storie e realizzavamo sketch”. Poi, al liceo, Ciufoli finì in classe con Pino Insegno e l’intesa fra i tre scattò praticamente in automatico. “Conobbi Pino perché era diventato il migliore amico di Roberto e iniziammo molto presto a fare delle cose insieme. Pensa che il primissimo spettacolo lo potemmo mettere in piedi grazie alla pensione di sua nonna (ride, ndr). Per realizzare ‘Giulio Cesare è…ma non lo dite a Shakespeare’ affittammo il teatro parrocchiale per tre repliche. Eravamo giovani e squattrinati e la nonna di Pino ci girò una delle sue mensilità, portandoci fortuna”.

Il passo successivo fu la formazione de L’Allegra Brigata, nella prima metà degli anni ottanta: “Eravamo in tanti, circa una decina e della banda faceva parte, tra gli altri, anche Massimo Popolizio. Grazie al regista Massimo Cinque e a Pietro Garinei entrammo al ‘G.B. Show’ e ci ritrovammo magicamente in tv. Lavorammo con un gigante come Gino Bramieri e per noi fu incredibile. Ci restammo per quattro anni, fino a quando non siglammo un altro incontro pazzesco”.

Quello con Gianni Boncompagni.

Esatto. Selezionò me, Pino e Roberto per ‘Pronto, chi gioca?’ ed esattamente in quell’occasione, su sua richiesta, diventammo un quartetto.

Come mai pretese una figura aggiuntiva?

Erano gli anni in cui stavano esplodendo Solenghi, Lopez e Marchesini e per noi il Trio era fonte di ispirazione. Gianni non volle ripetere la formula dei due uomini e una donna e secondo me ci vide lungo. Motivo per cui subentrò Tiziana (Foschi, ndr).

Di lì a poco nacque ufficialmente la Premiata Ditta. Un nome che si inventò Pino Quartullo.

Sì, all’inizio venivamo introdotti semplicemente con i nostri cognomi. Quartullo ebbe questa illuminazione e il nome ci piacque da subito. Premiata Ditta ci suonava simile a quelle scritte che si trovavano nelle scatole di latta dei biscotti. Forniva un senso di prestigiosa artigianalità.

In Ricomincio da 2, con Raffaella Carrà, arrivò la vera svolta.

Le soap opera erano il fenomeno del momento e avevamo deciso di farne delle parodie. Ma l’incrocio con ‘Beautiful’ fu del tutto fortuito, dato che era arrivato in Italia per sostituire nei soli mesi estivi ‘Quando si ama’, che era il grande successo di Rai 2.

Invece la storia si capovolse.

‘Beautiful’ fece ascolti pazzeschi e divenne la vera regina delle soap. Per una serie di motivi, in quell’estate non ero andata in vacanza e avevo avuto modo di guardare le prime puntate, accorgendomi che i protagonisti, Ridge, Brooke, Thorne e Caroline, si cucivano perfettamente addosso a noi.

Avevate fatto bingo.

Offrivano stereotipi divertentissimi da riproporre e la prima volta che ci presentammo nei loro panni lo studio impazzì. Tutti sapevano di cosa parlavamo. Avevamo proposto qualcosa di inedito e credo che la chiave del successo della parodia stesse nel fatto che andavamo praticamente in contemporanea con gli episodi che trasmetteva Rai 2. Questo generò una grossa aspettativa, la gente ci fermava per strada.

Con l’approdo a Mediaset arrivò la sitcom Finché c’è ditta c’è speranza.

Fu una grossa fatica, ma anche una delle cose più divertenti fatte nella vita. Aveva criteri di produttività elevati, nel senso che in una giornata dovevamo confezionare quasi un’intera puntata, cambiando ogni volta location e personaggi. Vivevamo 6-7 settimane di delirio per ogni stagione. La preparazione era lunga, ma veniva facilitata dal lavoro di collaboratori pazzeschi in tutti i reparti. Tutto era scritto, noi abbiamo lavorato sempre con i copioni e la scrittura degli sketch ci teneva occupati a lungo.

Con Premiata Teleditta invece sbarcaste in prima serata.

Fu una bella fase, ma anche in quel caso l’impegno produttivo fu molto grosso, tra scenografie, costumi e tempistiche. Oggi non si potrebbe più ripetere. Ricordo che per girare la parodia di ‘Elisa di Rivombrosa’ affittammo per una settimana il castello di Bracciano. Senza contare che avevamo a seguito una troupe di 60-70 persone.

Quel tipo di comicità funzionerebbe ancora nel 2024?

Mi sembra che la soglia di attenzione si sia molto ridotta e, anche per tenere testa ai social, sono state studiate formule differenti, più da stand-up comedy. Funziona il comico col microfono in mano, uno sketch con travestimento annesso non lo affronta più nessuno.

Beh, c’è Maurizio Crozza.

Amo Crozza, è un comico infinito. Però pure lui ha bisogno di una grossa post-produzione. Quando mette in scena due personaggi che dialogano in contemporanea non lo fa in diretta. C’è un grande sforzo alle spalle.

Non le manca ironizzare sul presente?

Il genere della parodia continua a piacermi, è molto stimolante. Ma su cosa potremmo scherzare al giorno d’oggi? Su Avetrana? Nella tv attuale non trovo niente di iconico. Per fare una gag, devi avere qualcosa da amare. La nostra ironia su ‘Beautiful’ era affettuosa e la gente amava quel prodotto. Forse si potrebbero mettere alla berlina i personaggi de ‘L’Amica Geniale’, ma non mi viene in mente altro.

Se far convivere un duo o un trio è complesso, figuriamoci un quartetto. Come venivano prese le decisioni importanti?

Non abbiamo mai dovuto applicare la votazione a maggioranza, perché bastava che uno non fosse d’accordo che si continuava a parlare finché tutti non eravamo convinti. Ad ogni modo, negli anni ho imparato a lasciar correre. Si era instaurato un rapporto di tale fiducia che se tre su quattro pensavano che un’idea fosse valida, alla fine mi adeguavo e ammorbidivo le mie posizioni.

Pino Insegno ha detto di lei: “Dovessi stilare una classifica degli esseri umani più forti che conosco, probabilmente Francesca occuperebbe il gradino più alto del podio”. Un elogio niente male.

Sono parole che fanno piacere. Non so a che tipo di forza facesse riferimento, ma sicuramente sono una tenace. Poi ciascuno di noi ha le sue fragilità e Pino le mie le conosce. Quindi il suo complimento ha ancora più valore.

L’ha anche definita “idealista e coerente”. Mi permetta la battuta: era la classica ‘rompipalle’ del gruppo?

Un pochino sì! Su certi valori ho poco margine di trattativa, soprattutto sulle questioni etiche. Ad esempio, sono sempre stata contraria ad un tipo di comicità fatta di cliché. Nel senso che ai nostri tempi spesso le donne nella comicità venivano relegate ad un ruolo estetico, non fattivo. Su questo non ho mai ceduto: io e Tiziana non siamo mai state subalterne agli uomini.

In effetti, nella Premiata Ditta nessuno dei componenti ha mai prevalso sugli altri.

Abbiamo sempre spartito la torta al 25%. Nessuno di noi ha mai contato il numero di battute dell’altro, per il semplice motivo che partivamo dal principio dell’equivalenza dei ruoli. Anche quando scrivevo, non scrivevo per me, bensì per quattro.

Esclusa la parentesi per il marchio Crai, la Premiata Ditta è ormai inattiva da diciotto anni. Eppure sembra che non si sia mai sciolta.

In verità non ci siamo mai fusi. Vero, non ci sentiamo tutti i giorni, ma emotivamente non è cambiato niente. Lavoriamo nello stesso campo, abbiamo semplicemente intrapreso strade diverse. Nessuno di noi ha cambiato vita o modo di vedere le cose. Ci consideriamo ancora la compagnia più longeva d’Italia, forse ci superano solo Aldo, Giovanni e Giacomo.

Nel frattempo porta avanti il suo impegno nel doppiaggio.

Sono sia doppiatrice che dialoghista, nel senso che cerco di far dire ad un personaggio in italiano concetti dello stesso significato, ma sui tempi e sulla lingua di un altro. Ci vuole parecchio tempo, però è un lavoro bellissimo. Hai la possibilità di vedere i film quasi per fotogrammi. Provi e riprovi, controlli la lunghezza dei labiali e questo ti consente di scoprire sguardi e movimenti impercettibili degli attori.

Questo significa avere tutti i finali dei film bruciati.

Purtroppo sì. Un pochino ti rovinano la sorpresa, lo spoiler a volte è inevitabile.

E’ attiva soprattutto nell’universo dei cartoni animati. In quel settore ci sono maggiori licenze rispetto al doppiaggio di un film?

In questa fase sono dialoghista e alla direzione del doppiaggio di Rick and Morty e porto avanti l’esperienza di American Dad. I Simpson invece li presi attorno alla settima stagione e li ho lasciati qualche anno fa. In genere ho sempre ereditato dialetti ed accenti e, proprio nel caso dei Simpson, ho tenuto fede a quanto era stato fatto in precedenza. Al contrario, dove ho pieno controllo evito il dialetto perché si entra in un discorso di comicità stereotipata. Ci sono modi più nuovi per far ridere. Perché mai due che vivono in America dovrebbero parlare in milanese o in calabrese? In alcuni contesti funzionano alla grande, ma ammetto che non è il mio genere preferito.

I film di animazione spesso aprono le porte ai ‘talent’, ovvero personaggi celebri come cantanti o calciatori. Sono una reale risorsa o un peso?

Sono sicuramente una risorsa. Se il personaggio è famoso in un altro settore ed esce la notizia che ha doppiato un cartone, si ha un riscontro pubblicitario sul prodotto. Tuttavia, il meccanismo può essere anche una iattura. Abbiamo talent fantastici, come Giancarlo Magalli, e altri meno. Nel secondo caso te ne accorgi subito, perché i dialoghi non appaiono fluidi. Comunque, sta un po’ passando la moda di ingaggiare sportivi o stilisti. Sempre più spesso si resta nell’ambito della recitazione.

Gli attori americani sono sempre felici del vostro operato?

Non ho troppe informazioni a riguardo. So però che Woody Allen voleva molto bene ad Oreste Lionello e più volte affermò che grazie a lui gli italiani avevano potuto apprezzare i suoi film.

A Tale e Quale il pubblico ha avuto modo di rivedere assieme sul palco Insegno e Ciufoli, mentre la Foschi era presente in platea. L’unica assente era lei.

Faccio sempre spettacolo, ma non nella veste più visibile. A me va benissimo così, la televisione non mi manca. Da un paio d’anni sono tornata a recitare a teatro, con molta calma. Se qualcuno sente la mia mancanza, può venire a vedermi. Non ho rimpianti.

Immagino avrà visto Ciufoli nei panni di Angela dei Ricchi e Poveri. Ai tempi della Premiata Ditta ad imitarla era lei.

Certo che l’ho visto! Roberto nei panni della ‘brunetta’ è stato un tocco di gnocco, davvero stupendo. All’epoca della Premiata Ditta la impersonavo io perché ci assomigliamo molto. Era facilissimo, bastava che ci vestissimo uguale. Adoro Angela, è molto spiritosa ed è una bella persona.