Un festival dei miracoli. Questa è la premessa doverosa. Perché Sanremo 2021 è stato un percorso ad ostacoli senza precedenti, tra covid, restrizioni, quarantene e la desolazione di un Ariston vuoto. Un tornado di circostanze negative che avrebbe abbattuto un bisonte. Non Amadeus, pronto a difendere la sua creatura da tutto e tutti, nonostante la differenza sostanziale tra il festival sognato e quello venuto fuori.
Nessuno aveva mai condotto la kermesse rivolgendosi solo alle telecamere. Nessuno aveva mai fatto i conti con i silenzi, spesso disarmanti, di una sala deserta. Nessuno aveva vissuto quel senso di spaesamento, impossibile da spiegare se non lo provi in prima persona.
Prima le poltroncine vuote, poi l’azzardo dei palloncini usati come riempitivo, subito cestinati. “Abbiamo fatto una cazzata”, ha scherzato Fiorello, capace di trasformare in punto di forza un evidente scivolone estetico. L’esperimento del mercoledì è stato la prova di come si procedesse a tentoni. Eppure, quella percezione di navigazione a vista, più che una colpa, ha rappresentato al meglio il tentativo quotidiano di adeguarsi all’emergenza.
Tuttavia, Sanremo non è solo una questione di Ariston. Sanremo è soprattutto il contorno. Un contorno che non è esistito. L’evento degli eventi si è dunque trasformato in un ordinario programma televisivo.
Le strade piene, i fan accalcati davanti al tappeto rosso, la scia di positività che riempiva la cosiddetta ‘settimana santa’. A questa settantunesima edizione è mancata quella percezione di rincorsa che ti faceva approdare alla sera già carico di benzina. Se Sanremo è quel posto in cui uno starnuto diventa boato, stavolta lo starnuto è rimasto tale. Non per colpa dei conduttori, ma per via di un’Italia che evidentemente non ha staccato la spina, decidendo di non far diventare il festival l’ombelico del mondo per cinque giorni.
Come detto, Sanremo è stato uno show televisivo di successo, non un evento. Tornerà ad esserlo, tutti auspicano già dal 2022. La Rai ha provato a spiegarlo in tutti i modi, evidenziando come fosse impossibile un confronto diretto col passato, ma al contempo avanzando giustificazioni di ogni tipo. Dalla concorrenza della Serie A (presente in maniera agguerrita pure in altre epoche) allo slittamento a marzo, dimenticando che fino al 2008 il festival ebbe proprio quel tipo di collocazione.
La verità è che nessun altro festival può essere bilanciato con Sanremo 2021. E se la regola vale quest’anno, per forza di cose dovrà rimanere in vigore pure fra dodici mesi. Amadeus e Fiorello non ci saranno e i dirigenti di Viale Mazzini potrebbero essersi avvicendati. Il timore è che dopo questa difesa ad oltranza sacrosanta, l’anno prossimo il 70+1 possa essere utilizzato come termine di paragone per sbandierare (o mascherare) altri dati. Perché in Italia salire sul carro dei vincitori è facile e prenderne al volo un altro in corsa lo è ancora di più.
Chiunque ci sarà – conduttore-direttore artistico-vertici Rai – dovrà far suo un gesto tanto coraggioso quanto coerente: specchiarsi non col festival del virus e dei mille protocolli, bensì con il 2020, l’ultimo vissuto in condizioni di normalità. Per poi andare a ritroso.
Troppo facile, altrimenti. Sanremo 2021 resti nella memoria di tutti come un simbolo concreto di eroismo e ripartenza. “E’ stata l’edizione della resilienza e di grande valenza etica – ha detto il direttore di Rai 1 Stefano Coletta – abbiamo rimesso in moto un mercato che era morto”.
Allora che sia davvero un anno zero. Mandare questo festival allo sbaraglio sarebbe ingiusto e offensivo. E macchierebbe un’opera d’arte. Perché oltre all’Auditel c’è di più.