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Eurovision Song Contest 2016, l’Italia provinciale non impara dall’Europa

La versione italiana della finale di ESC2016 non rispetta lo spettacolo e si avvita su se stessa tra luoghi comuni, autoreferenzialità e un commento logorroico che azzera la suspense nel momento topico della votazione.

pubblicato 16 Maggio 2016 aggiornato 2 Settembre 2020 00:51

L’Eurovision Song Contest 2016 è stato un ottimo spettacolo televisivo. Chiariamolo subito: ci riferiamo alla show svedese. La Padrona di casa è, infatti, riuscita a confezionare un programma di livello, leggero e ben congegnato, con opening act d’effetto, scambi di battute al limite del politicamente corretto per l’Italia (con la frizzante Petra Mede, contraria a tutte le regole della necessaria figaggine televisiva italiana, che rimarca ironicamente come le donne a letto non abbiano poi molta scelta tra uomo e robot…), nudi integrali (l’apparizione di Måns Zelmerlöw coperto solo da un lupo di peluche è da collezione) e una produzione audiovisiva d’impatto. Il tutto caratterizzato, peraltro, da una conduzione di servizio, efficace, ma non invadente.

E’ proprio il concetto di servizio ad avermi colpito di questo (come di molti altri) Eurovision: tutto l’evento è al servizio delle canzoni e degli artisti in gara. Lo sono i conduttori, che riescono a lasciare il segno con micro-interventi tra i blocchi delle canzoni (con intervalli tra un’apparizione e l’altra anche di 50 minuti) e che poi conquistano la scena con esibizioni davvero spettacolari. Un assaggio? L’opening act della seconda semifinale, ovvero una storia dell’ESC in 4 minuti a mo’ di musical infarcito di citazioni e cantato dai conduttori. Non ci sarà bisogno di ricordarvi, invece, lo sketch sugli Abba di Laura & Paola. Giusto per fare un paragone.

Al servizio della musica anche la regia, che cambia spartito a ogni brano per rispettare le scelte artistiche dei vari paesi. Una direzione d’orchestra in un certo senso ‘spersonalizzata’, in cui il direttore ‘scompare’ dietro alla personalizzazione studiata con gli staff delle varie nazioni, ciascuna ideatrice di una presentazione (che rappresenta una buona quota della vittoria finale) mirata a esaltare il proprio pezzo. Per fare un esempio della (s)personalizzazione della regia, si confrontino le immagini dell’esibizione live dell’Armenia (Iveta Mukuchyan – LoveWave), con cambi continui di inquadratura, e dell’Austria (ZOË – Loin d’Ici), tutta giocata su morbidezza e leggerezza.

La marca dell’ESC, però, resta negli anni soprattutto una: il ritmo. Le canzoni si susseguono senza inutili salamelecchi, con solo una intro registrata di pochi secondi per presentare artista e Paese in gara, e soprattutto per dare il tempo a un cambio palco degno di Brachetti. Nel tempo occorso all’ESC per introdurre il terzo brano in gara della finale, Fazio e Gramellini su Rai 3 erano appena riusciti a salutare il pubblico.

Vale la pena anche ricordare che tutto lo show (ritmo, regia, scrittura, cambio palco, messa in scena) è frutto di un meticoloso lavoro fatto di prove serratissime, uguali in tutto e per tutto ai live (come può testimoniare anche l’inviata di Blogo a Stoccolma, Arianna Ascione).
Uno sforzo riassumibile in una parola: professionalità. Tanta.

E veniamo alla ‘cura italiana’ dell’ESC 2016. Le due semifinali, andate in onda su Rai 4, sono riuscite a rendere perfettamente lo splendore dello show. Poi è arrivata la finale in diretta su Rai 1 ed è riemersa tutta la provincialità della tv italiana. E’ bastata l’anteprima per capire che la cifra del nostro racconto sarebbe stata quella solita, fatta di campanilismo autocompiaciuto, sostanziale disinteresse per il resto dello show, totale autorefenzialità, completa implosione sulla Michielin.

La citazione di Totò e Peppino a Milano – con Insinna vestito a mo’ di terzo fratello Capone con colbacco e borraccia perché “a Stoccolma non può fare caldo” – basta ad appiattire l’anteprima sui ritriti luoghi comuni tanto cari alla nostra tv. Uno show come l’ESC che apre alla conoscenza dell’Europa (e paesi terzi) fondendo in sé quasi elementi di Scienze Politiche, Geografia economica, Linguistica (peccato per il dominio dell’inglese), Antropologia, Scienze Sociali, Tv Studies, Audience Analysis si riduce a una trasferta del caloroso mediterraneo nell’ostile scandinavia. E dire che tifare per l’Ucraina, commentare il televoto per la Polonia, scambiare su Twitter commenti sull’esibizione della Bosnia Erzegovina, riconoscere sonorità nel rock georgiano e commentare l’abito croato fa sentire l’Europa unita più di una moneta unica.

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Tutto il nostro commento alla finale, invece, si concentra sul nostro ombelico: il gioco delle parti tra Insinna, chiamato a interpretare ‘l’italiano medio’ secondo Rai 1, e Federico Russo, nel ruolo invece del ‘gggiovane’ cosmopolita, vuole mettere insieme le audience target e inchioda tutto alla banalità. Non ci si sposta dalla campagna voti per la Michielin, si trasmettono i videomessaggi per la Michielin, i commenti sulla Michielin, le interviste alla Michielin, che vanno in onda interrompendo persino le fasi cruciali della spiegazione del sistema di votazione, le esibizioni del mid-show, i conduttori.
Tanto l’italiano medio non sa l’inglese, quindi che fa?

Non importa che lo show sia una narrazione costruita per alimentare la suspense e che il commento over abbia una specifica funzione, non solo traduttiva, ma soprattutto di contestualizzazione, da integrazione, da valutazione.

La versione italiana non si mette al servizio dello show. Tradisce così lo spirito stesso di ESC.
Insinna pare quasi non rendersi conto che non è lui il presentatore, ma è ‘solo’ commentatore in una telecronaca che di fatto non c’è. E’ tutto un parlarsi sopra e un parlare addosso. Efficace in questo senso il tweet di Silvia Motta durante la diretta.

Bastava invece seguire la cronaca di Ardemagni e Solibello nelle due semifinali e prendere appunti per riuscire a confezionale una finale italiana godibile e rispettosa dello show tv oltre che del concorso. Un tocco di sciovinismo fa parte del rito, per carità, così come l’esagerazione, il trash. Ma i nostri non sono nel mood. In fondo non c’è neanche la nostra rappresentante: l’ESC è una grande festa che passa anche per gli outfit e le scenografie, ma l’omaggio shabby chic della Michielin alla filosofia ‘campo dall’orto’ non ha lasciato il segno.

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In parole povere, il commento italiano alla finale – con Insinna e Russo – è stato disturbante, con quel continuo vociare senza contenuto e quelle continue entrate fuori tempo che rendevano impossibile sentire cosa stava succedendo a Stoccolma.
In fondo, perché far vedere le clip ironiche sulla storia della Svezia sull’ESC? Che ce ne frega, mica siamo svedesi, no? Proprio lo spirito dell’Eurovision…

A noi importava solo chi votava per l’Italia (bravi, amici, ricambieremo) e chi no (cattivi, traditori, ce ne ricorderemo): di quello che stava succedendo tra l’Ucraina e la Russia e della lettura ‘geopolitica’ della distribuzione del voto, del compattamento del fronte anti-Putin nelle Nazioni dell’Est a favore della ‘ribelle’ Ucraina non c’è stato traccia.

E dire che, a mio avviso, l’Ucraina ha vinto questo Eurovision sotto tutti i punti di vista possibili.
E’ riuscita a incarnare le varie anime dell’evento, ovvero la caratterizzazione culturale, la buona musica e quel tocco di follia che fa da cifra narrativa. Ha avuto, infatti, il coraggio di portare un testo politico e impegnato sull’occupazione sovietica dei territori ucraini e della deportazione dei tatari (la cui lingua fa capolino nel brano) in una kermesse che punta su dance e ballad; lo ha fatto con un brano convincente e una gran voce; è riuscita a farlo con una messa in scena semplice ma suggestiva.
E poi ha presentato una coppia di portavoce che ha entusiasmato tutto il pubblico, con tanto di inchino della presentatrice.

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Serio e faceto, denuncia e spettacolo, musica e messa in scena, misura ed eccesso, global e local: l’Ucraina ha portato tutto questo e ha vinto. Ma tutto questo è, nel profondo, l’Eurovision Song Contest: un ossimoro che scatena effetti di senso. Trasformarlo in un unico, lungo, appello di voto per la propria esponente è triste. Di più: imbarazzante. Ma non è colpa di Insinna e Russo, piuttosto di chi li ha voluti così. E in tanti anni la lezione cosmopolita dell’Eurovision non è stata neanche letta dalla tv italiana.

L’anno prossimo tutti a Kiev. E vedremo se riusciremo a fare meglio. In tv, non solo sul palco.

PS. Andrebbe approfondita anche la questione dei 12 voti della Giuria Tecnica dell’Italia alla Spagna, che sembra rispondere alle solite dinamiche di prossimità culturale, più che di valutazione artistica. Resta uno dei misteri della fede della serata, un po’ come i 12 punti della Francia all’Italia. Ma questa è un’altra storia.

Eurovision Song ContestFlavio Insinna