Eddy Anselmi, l’Auditel e il Festival di Sanremo. E molto altro che ha a che fare con #WIDG
«Le stime d’ascolto rilevate dall’Auditel dovrebbero quindi essere solo il metro del valore del tempo televisivo». Ma in realtà non è così.
- «La parola racconta da sola l’evoluzione dello spettacolo sanremese. Nunzio Filogamo, Nuccio Costa, lo stesso Mike Bongiorno “presentavano” il Festival di Sanremo, Pippo Baudo, Paolo Bonolis e Antonella Clerici lo “conducono” […] Le stime d’ascolto rilevate dall’Auditel dovrebbero quindi essere solo il metro del valore del tempo televisivo: in realtà viene utilizzato non come misuratore degli utenti degli spazi pubblicitari ma come indicatore del consenso di una linea editoriale o di un modello televisivo» (Eddy Anselmi)
- Riceviamo e pubblichiamo, con grande piacere, un approfondito intervento (da cui sono estratte le due frasi qui sopra) di Eddy Anselmi, già creatore di festivaldisanremo.com, sito indipendente sul Festival, autore nel 2009 di Festival di Sanremo – Almanacco Illustrato della Canzone Italiana, (Panini, 966 pagg.), seguito l’anno dopo da Sanremo 1951-2010, 60 anni di Festival della Canzone Italiana (PaniniMagazines, 300 pagg.) e da Guida a Sanremo 2012. Anselmi traccia, attraverso qualche appunto “storico-numerico” sul Festival di Sanremo da quando esiste l’Auditel, propone una serie di considerazioni sullo strumento-Auditel, ma anche sulla televisione. Da leggere con calma, per riflettere sulle ragioni che hanno reso necessaria WIDG – La tv che vorrei, una settimana dedicata alla qualità in televisione. E persino una domenica senza Auditel. Di seguito, l’intervento.
Penso che il problema non sia l’Auditel, ma l’importanza della pubblicità nel bilancio della televisione pubblica, e quindi delle scelte indiiduali dei soggetti coinvolti nella progettazione dell’offerta televisiva pubblica. Se gli obiettivi editoriali sono certi numeri nella competizione delle stime d’ascolto, la programmazione ne resterà influenzata. Se si raggiungono gli obiettivi, i soggetti coinvolti a qualsiasi livello guadagnano di più, difendono il posto di lavoro, estinguono un mutuo, fanno carriera. E’ normale che molti di loro giochino in difesa.
Scrivere una nuova storia del Festival di Sanremo mi ha restituito un campione significativo di quella di tutta la radiotelevisione italiana, che registrava a sua volta tanti dei cambiamenti attraversati dall’intero nostro Paese. Confrontando palinsesti, linguaggi, comportamenti e personaggi non ho potuto che rafforzare un’opinione critica verso quella che è diventata la comunicazione pubblica in Italia: guardando poi alla contemporanea evoluzione di altre esperienze nazionali, non ho potuto che confermare la mia amarezza per il vero e proprio mutamento genetico della Rai, che dalla metà degli anni Ottanta è passata lentamente ma inesorabilmente dall’essere la principale azienda culturale del paese a inseguire l’umore della massa.
L’editore pubblico che prima ingentiliva, informava, educava e intratteneva l’Italia ora ne assecondava le curiosità e le preferenze più grevi, finendo per contribuire al suo generale involgarimento. La programmazione radiofonica per ora pare salva, ma non sono pochi i segnali di cambiamento, in peggio, anche in questo campo.
La sola storia del Festival di Sanremo dalla seconda metà degli anni Ottanta in poi è paradigmatica del mutare dei contenuti televisivi di pari passo alla crescita dell’attenzione verso le stime d’ascolto rilevate dall’Auditel. Introdotto nel 1987, il primo Festival targato Auditel fa segnare risultati più che lusinghieri, ma mancano termini di paragone: la flessione del 1988 impone ai vertici Rai una riflessione. Gli ascolti, ancora per qualche anno, saranno solo una delle tante variabili di cui tenere conto nell’organizzazione dello spettacolo.
Nel 1991 i dati d’ascolto del terzo e ultimo Festival organizzato dal solo Adriano Aragozzini fanno segnare un brusco ribasso. Poco importa che proprio in quei giorni abbia termine la Guerra del Golfo, un conflitto di durata limitata ma dall’impatto emozionale e mediatico enorme: era dal 1945 che militari italiani non erano impegnati in un teatro di guerra. In un anno in cui sono state annullate anche la maggior parte delle feste di Carnevale, gli Italiani spengono la televisione e vanno a fare una passeggiata, complice anche una primavera arrivata in leggero anticipo. La lettura dei dirigenti Rai è diversa: il calo dei telespettatori stimati, per loro, è dipeso esclusivamente dalla proposta artistica, quell’anno particolarmente sofisticata e cantautoriale. Se si vuole la qualità bisogna essere disposti a rinunciare a qualcosa in termini di ascolti. Sottinteso, viceversa.
Dalla metà degli anni Novanta l’attenzione alle rilevazioni auditel si spinge anno dopo anno oltre il limite del parossismo. La Rai, dal 1994 dominus solitario della manifestazione, ne rinnova la grammatica trasformando un concorso di canzoni in un contenitore sui generis che contiene “anche” un concorso di canzoni. Quando le canzoni sono tante e interessanti, i dati d’ascolto salgono, come nel 1995 e nel 2000: quando le canzoni sono poche e poche quelle degne di nota, come nel 1998, nel 2003 e nel 1998, gli ascolti scendono. Maurizio Beretta, direttore di RaiUno, nel 2001 fa notare, curve Auditel alla mano, che il pubblico tende a cambiare canale durante l’esibizione delle canzoni: da quel momento la tendenza al ridimensionamento dello spazio riservato alla gara sarà una costante.
Dalle 32 canzoni del 2001 si passa alle 22 del 2004, 2011 e 2012. L’elemento considerato più debole del Festival, la gara nuove proposte, che erano 18 nel 2000, perde per strada dieci concorrenti, e viene costantemente relegata a cavallo della mezzanotte. Con migliore o peggior successo, vengono sperimentati formule e nomi di provato successo televisivo: secondo l’ex direttore di RaiUno Fabrizio Del Noce il segreto del successo di Sanremo avrebbe dovuto essere cambiare il conduttore ogni anno. Già, il conduttore: la parola racconta da sola l’evoluzione dello spettacolo sanremese. Nunzio Filogamo (nell’immagine), Nuccio Costa, lo stesso Mike
Bongiorno “presentavano” il Festival di Sanremo, Pippo Baudo, Paolo Bonolis e Antonella Clerici lo “conducono”.
Esasperando la tendenza già emersa e consolidata negli anni Novanta e seguendo le priorità autoassegnatesi dagli organizzatori dello spettacolo, negli anni Duemila il dato della stima d’ascolto rilevata dall’Auditel assume per qualche tempo un’importanza maggiore del risultato della gara canora. RaiUno, negli stessi anni, appare abbandonare il ruolo di televisione generalista per concentrarsi sul suo pubblico di riferimento. Anche lo spettatore di Sanremo cambia, corrispondendo sempre più a un tipo specifico di consumatore televisivo: residente al Sud, ultracinquantenne, pensionato o casalinga, dalla scolarità medio-bassa.
Un pubblicitario irriverente mi confessò che con preciso cinismo, nell’ambiente si parlava del “pubblico di Padre Pio”. Ma se gli sponsor si rivolgono a casalinghe, famiglie e anziani fu inutile proporre esperimenti e inseguire i gusti dei giovani: anche l’età media dei protagonisti del Festival si alzò, e si videro con frequenza sul palco dell’Ariston protagonisti ultrasessantenni degli anni d’oro della musica leggera. Negli ultimi anni, Sanremo ritrova parte del pubblico più giovane grazie all’apertura ai protagonisti dei talent show, evolvendosi, con lodevoli e spettacolari eccezioni, in uno spettacolo meta televisivo, espressione di un mondo autoreferenziale che con la musica ha a che fare solo in maniera tangente.
La conferenza stampa dell’Organizzazione del Festival, che sfila quotidianamente davanti ai rappresentanti dei media accreditati, si apre con la lettura liturgica dei dati d’ascolto della serata precedente, arrivati ogni mattina dal consorzio incaricato delle rilevazioni. E si commentano quelli: immaginate che dopo una partita dei mondiali, invece di intervistare i giocatori, si intervisti Blatter che ci illumina sulla vendita dei biglietti.
Logico che i dipendenti della Rai siano preoccupati: è dalla riuscita dello spettacolo in termini di ascolti che potrebbe dipendere un successo professionale, un obiettivo aziendale rispettato, una maggior sicurezza del proprio impiego, un premio condizionato dai risultati.
Più sorprendente, al contrario, l’attenzione di cronisti, commentatori e telespettatori coinvolti nel dibattito sulla performance aziendale. La “vittoria” e la “sconfitta” del conduttore e le reazioni del management Rai finiscono per relegare in secondo piano la gara delle canzoni. Passi per i giornalisti, spesso inviati in ragione delle loro competenze musicali e catapultati in un dibattito che parla di politica aziendale Rai. Ma mi è capitato di scendere al bar per un caffè e di vedermi coinvolto in una discussione con il macellaio e il garzone del fruttivendolo sulla contro programmazione di Mediaset, e su cosa dovrebbe fare la Rai per aumentare gli ascolti.
Ed è lì, che ho capito.
Le stime d’ascolto rilevate dall’Auditel dovrebbero quindi essere solo il metro del valore del tempo televisivo: in realtà viene utilizzato non come misuratore degli utenti degli spazi pubblicitari ma come indicatore del consenso di una linea editoriale o di un modello televisivo.
Tutto parte da lontano, da quando nel 1986 la Rai decide di fare “concorrenza” alle televisioni commerciali sul mercato della raccolta pubblicitaria. Fu come una biblioteca che si mette in competizione con una libreria, o con un’edicola. Il passaggio non fu immediato, ma la programmazione di quella che era la prima azienda culturale italiana venne negli anni schiacciata sul linguaggio, e sul discorso della televisione commerciale. In questo modo si finiva per “nobilitare” la programmazione di tutta l’emittenza privata, contribuendo all’autorevolezza di questa e alla percezione dei pubblici di soggetti del tutto analoghi.
Anche lo sbarco eccezionale sugli schermi della Rai di personaggi provenienti dall’universo televisivo del principale competitor da un lato aiuta la Rai a incuriosire il pubblico, dall’altro porta esperienze prestigiose e aumento del valore professionale degli artisti coinvolti.
Per quanto riguarda la televisione commerciale, inseguire il gusto e le inclinazioni del pubblico fa parte della loro mission aziendale. Disse il direttore di France 1 che lo scopo della sua programmazione era solo quello di intrattenere la maggior parte di pubblico nell’attesa che passasse la pubblicità: in quell’ambito, ben vengano l’Auditel, i Grandi Fratelli, le cosce di fuori.
Il sistema attuale favorisce la segmentazione dell’offerta televisiva. Se si osservano bene i target dei sei diversi canali via etere dei due principali editori, si nota a vista d’occhio che si rivolgono a sei pubblici del tutto diversi. Per esempio, la Rai non fa quasi mai concorrenza a Italia Uno sul target ‘giovani’ e i pubblici di RaiUno e di Canale Cinque sono ormai profilati in modo sostanzialmente diverso. I principali interessati sono i cosiddetti big spendor, che possono, a fronte di sostanziali investimenti in comunicazione pubblicitaria, rivolgersi miratamente a uno spettro di più pubblici, profilati in modo assai dettagliato per trattarsi di un medium generalista come la televisione.
Nel frattempo, la Rai sviluppa un vera e propria la dipendenza dalla pubblicità, quindi dai dati sulle stime d’ascolto (i c.d. ascolti) demandati alla società consortile Auditel. Nell’ultimo bilancio, essa incide per quasi un miliardo di euro, poco meno della metà delle entrate dell’azienda. Una tossicodipendenza vera e propria.
Un miliardo di euro all’anno: in realtà analoghe per dimensioni e storia come il Regno Unito o la Spagna dovremmo aspettarci di trovare cifre analoghe. Quant’è la percentuale della pubblicità nel bilancio della BBC e di RTVE? Zero. Sì, proprio così. Zero.
Sono persuaso che l’unico modo possibile per tentare di fare tornare la Rai un’azienda culturale chiave per la nostra Italia è farla uscire unilateralmente dal mercato della raccolta pubblicitaria, e quindi delle stime d’ascolto fatte di Audience e Share, e della battaglia sui dati Auditel. Forse potrebbe restare uno spazio pubblicitario all’interno dei grandi eventi sportivi o spettacolari per finanziarne l’acquisto, con modalità comunque lontane dalla logica attuale.
Si aprirebbe quindi il dibattito sul finanziamento della tv pubblica. Le strade ci sono: da un lato una rimodulazione dell’imposizione e della riscossione del canone, per esempio appaltandolo alla bolletta della luce o affidandone l’esazione ai comuni, dall’altro, come in Spagna, una minima imposta sul fatturato degli editori radiotelevisivi privati e delle grandi compagnie di comunicazione, che veicolano gran parte dei contenuti disponibili in rete. I concorrenti, restando sul mercato, si avvantaggerebbero dal fatto che il principale competitor scelga di lasciare a loro l’intera torta.
Per contro, il carattere pubblico dell’emittenza radiotelevisiva è una specificità tutta europea, che credo sia da preservare. Addirittura, in Svezia, Norvegia, Gran Bretagna e nei Paesi Bassi, accanto dell’azienda radiotelevisiva di stato, esistono diverse emittenti commerciali, in tutto o in parte controllate da privati, che hanno una sorta di dovere di servizio pubblico, che permette per esempio loro di aderire all’EBU, European Broadcasting Union (il consorzio Eurovisione).
La BBC non ha mai utilizzato la pubblicità come finanziamento: la televisione spagnola è tornata indietro appena due anni fa, a dispetto dell’opposizione drastica dell’associazione degli operatori pubblicitari e degli editori privati che paventavano un ridimensionamento dell’intero mercato. I numeri hanno dimostrato il contrario: nonostante la crisi economica, nell’ultimo anno il fatturato complessivo del settore è addirittura cresciuto, con ricadute positive sull’editoria e sulle emittenti commerciali.
Spezzare le catene dell’Auditel permetterebbe alla Rai di slegarsi dal potere economico dei big spendor, di misurare la qualità della sua produzione e non la quantità del pubblico, di guadagnare in ultima istanza un’assoluta libertà. I competitor privati, a fronte di un’imposta tutto sommato esigua, si troverebbero per contro padroni di un mercato miliardario ma (e sarà questa la causa della più strenua resistenza) in prospettiva costretti a misurarsi con il gradimento di un pubblico che nel tempo diventerebbe sempre più esigente. Sarebbe in ogni caso un’opzione win-win per tutti i soggetti coinvolti.
Non avremmo più una Rai che scende nell’agone della programmazione cheap dell’emittenza commerciale inseguendola a colpi di sensazionalismo e cronaca nera, ma un’azienda che torna ad essere un esempio, battistrada e punto di riferimento culturale dell’Italia, un luogo che dia spazio alle competenze e alle sperimentazioni, diventando una vera e propria incubatrice di talenti e potendo sperimentare nuove tecniche multipiattaforma oggi messe a margine da una logica di mercato. Si potrà obiettare che si tratta di una posizione elitaria: viceversa, la trovo assai più rispettosa e popolare. Il pubblico avrebbe più scelta e la ricerca della qualità potrebbe finalmente valorizzare il patrimonio umano e professionale della Rai.
Tutti gli attori del dibattito pubblico di oggi, nessuno escluso, sembrano accettare come dato di fatto che la Rai debba “competere” con gli altri editori misurando gli “ascolti”. Durante il Festival di Sanremo, la giornata della sala stampa si apre con l’annuncio delle stime calcolate dal campione Auditel la sera precedente. E diventa l’unico criterio che informa tutta la discussione sulla riuscita, o meno, dello spettacolo. Un chiodo fisso che informa tutto il dibattito sulla produzione editoriale dell’azienda.
Anche chi ha proposto riforme, al di là del puntuale dibattito sulla governance, si è spinto poco meno che timidamente a ipotizzare canali di intrattenimento finanziati dalla pubblicità e canali di servizio pubblico finanziati dal canone. E invece, evviva l’Auditel, ma evviva anche una Rai che riesce a finanziarsi del tutto senza pubblicità, opzione “zero” su cui potrebbe valere la pena di aprire una discussione pubblica.
Eddy Anselmi