Daria Bignardi e la social tv: le critiche su Twitter e l’umanità dei conduttori
La conduttrice parla, su Vanity Fair, del suo rapporto con il suo lavoro in tv e delle critiche su Twitter.
Daria Bignardi si sfoga su Vanity Fair.
E’ un bello sfogo, a dire il vero. Riguarda la televisione, la critica, il pubblico, i social network. Insomma, la social tv.
La Bignardi, che è di nuovo in televsione con Le invasioni barbariche, racconta il suo ritorno in maniera molto umana e coinvolgente. E credibile.
Spiega:
«Un pesce fuor d’acqua. È come mi sento in televisione, ma non mentre la faccio o la preparo: è quel che succede attorno alla tivù a sorprendermi ogni volta che ci torno dopo lunghi periodi di assenza. Ogni volta me ne dimentico. Ogni volta sono contenta di riprendere il lavoro col gruppo e lasciare la solitudine dello scrivere, immergermi nell’attualità, scoprire personaggi che hanno storie straordinarie, pensare a filmati, abbinamenti, cortocircuiti: il lavoro dell’autore televisivo può essere appassionante».
Poi parla della conduzione:
Anche condurre mi piace, tacchi alti a parte. L’emozione della diretta, la difficoltà emotiva di passare da un personaggio all’altro, ognuno con la sua psicologia, la sua storia, le sue aspettative che vanno mediate con le aspettative del pubblico, dell’informazione, dello spettacolo, la gestione svizzera dei tempi, ma anche una valanga di dubbi, riflessioni, rabbia per gli sbagli fatti. È come guidare una macchina da corsa, per certi versi, o pilotare un aereo. Servono concentrazione ed esperienza per non fare danni e arrivare a destinazione».
E poi arriva al tema delle critiche. In una maniera, come dicevo, molto umana e molto interessante.
Scrive, la Bignardi:
«Ma quello che ogni volta mi sorprende come un ceffone inaspettato è quel che succede dopo che sei andato in onda: sei di tutti. Una volta, prima che esistessero i social network, c’erano solo i commenti dei giornalisti e le reazioni delle persone che incontravi: difficile che chi ti conosce di persona ti dica in faccia che gli fai schifo, generalmente nel contatto personale gli altri tendono a essere educati. I critici e i giornalisti invece fanno il loro lavoro e hanno i loro pallini, uno ti apprezza e all’altro non vai mai bene: ci sta. All’inizio si rimane male, poi si capisce che il «purché se ne parli» è l’unico sintomo della vivacità di un programma e del suo successo».
E’ interessante anche il seguito, sul ruolo del conduttore televisivo, ma anche su quel che diventa per lo spettatore:
«Non sei più un umano, diventi un simulacro, un corpo, un’entità astratta su cui ironizzare e polemizzare: fa parte del gioco della comunicazione e chiunque faccia un lavoro che lo espone al giudizio degli altri sviluppa anticorpi ad hoc. Ma con l’avvento dei social network il gioco si fa più duro: dietro all’anonimato di nickname o contatti virtuali sei giudicato all’istante e, nel migliore dei casi, su dieci critiche almeno due sono espresse con aggressività. Servono settimane per rifarsi gli anticorpi o decidere di non leggere i commenti, o – cosa che sarebbe la più saggia – dar loro il giusto peso: persone che commentano, come al bar. Ma se si fa un lavoro strano come la televisione difficilmente si è tanto equilibrati o distaccati da dare il giusto peso a una critica o tanto sicuri di sé da non lasciarsene ferire. Anche perché a volte hanno un fondamento giusto, pur non tenendo conto di cose che, inevitabilmente, chi le esprime non può sapere. Tanto maggiore è il tuo successo, tanto più numerose saranno le critiche».
Infine, l’umanità:
«Chi fa televisione con passione, generalmente, è una persona dipendente dal giudizio e dall’affetto degli altri, come quasi tutti e di più. Chi si costruisce troppa scorza rischia di perdere il contatto col pubblico che è il suo primo interlocutore, come il lettore lo è per lo scrittore. Con la differenza che il lettore non è mai aggressivo, a differenza del telespettatore.
Ho cercato il significato del mio sogno nel linguaggio dei sogni: grosso pesce significa successo (le Invasioni barbariche stanno facendo ottimi ascolti), vedere un pesce fuori dall’acqua significa che vivrai una situazione pericolosa. Dev’essere Twitter».
Ecco, così arriviamo finalmente al punto e aggiungiamo qualche consierazione al Bignardi-pensiero.
La prima considerazione riguarda la critica televisiva.
Non che che, semplicemente, ci sono simpatie e antipatie, o interessi. E’ che il televip si è abituato a questo meccanismo. E quindi pensa che (in particolare sui blog, come questo) chi critica sia per forza assoggettato a questo meccanismo, anche se a chi critica non glie ne frega nulla. La prova? Semplice: il fatto che, spesso, siccome qui si parla dei programmi che si vedono, e non della simpatia o dell’ammirazione per chi li fa (io, per dire, sono appassionato delle inchieste di Iacona. Il che non mi impedisce affatto di criticarne, anche duramente, il lavoro se ritengo di essere stato deluso), ci venga rimproverato di non aver una linea editoriale. Come se avere una linea editoriale volesse dire esser proni nei confronti di questo e schierati contro quello.
La cattiveria del telespettatore. E’ vero, “sul web” – che non esiste, ma passatemi, come al solito le semplificazioni – le critiche sono feroci, atroci, dure, anche volgari, spesso non condivisibili. Ma quando in televisione si parla dei telespettatori bisogna fare i conti anche con questo. Che a qualcuno i programmi possano addirittura fare schifo, e che questo qualcuno possa dirlo senza mezzi termini.
L’umanità. Personalmente, ho apprezzato il racconto di Daria Bignardi, e questo suo mettersi a nudo, in qualche modo, rivelando la propria umanità, spiegando come vengano accolti “dall’altra parte” certi “tweet” di scherno e via dicendo. Mi è sembrato uno sfogo vero e sensato. Dopodiché, però, come sanno tutti coloro che sono “nativi digitali”, o almeno “immigrati digitali”, è da quando c’è il web che arrivano gli insulti, che si scatenano i troll, che si commenta di tutto e di più. Questo non significa che sia tutto tollerabile, non dico questo. Ma bisogna anche far attenzione a non confondere le acque: i tweet cattivi daranno fastidio, ma probabilmente quelle erano cose che quelle stesse persone si dicevano, fra amici o conoscenti. O al bar, appunto. L’unica differenza è che Twitter espone il tutto, lo rende pubblico. Non sposta nulla, perché non è che poi un programma venga chiuso se su Twitter se ne parla male.
Infine: tutto bene, tutto giusto, le critiche aggressive sono insensate. Purché non si pretenda che non si possa dire chiaramente quel che piace e quel che non piace.
Ad esempio, il tono dell’intervista a Mario Monti di ieri sera, be’, a me non è piaciuto per niente. Non era abituata a intervistare presidenti del Consiglio, la Bignardi. Sarebbe stato meglio evitare.