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Daisy Jones & The Six, grande serie o grande furbata?

Una serie fintamente musicale, che racconta un’altra storia di amore e amicizia, e con un finale decisamente già visto in un’altra serie…

9 Aprile 2023 15:18

Dieci episodi, ciascuno con un titolo che richiama gli ipotetici brani di un album: d’altra parte, se proponi una serie che racconta l’ascesa e la caduta di una fittizia rock band americana degli anni Settanta vuoi che sia chiaro da subito che la musica sarà protagonista. Ma lo è davvero? Daisy Jones & the Six, la serie uscita nelle settimane scorse su Prime Video, ha conquistato non pochi telespettatori, ma in alcuni suoi punti ci ha lasciati perplessi, sopratutto nel finale che, appassionati di serie tv in testa, è sembrato un po’ troppo scopiazzato dalla conclusione di un’altra serie tv.

La trama di Daisy Jones & the Six

La serie ha due linee temporali: la prima è ambientata nel 1997, quando i membri della popolare rock band che dà il nome anche alla serie vengono intervistati per un documentario che vuole ripercorrere la loro storia e, soprattutto, indagare sui motivo del loro scioglimento.

Perché Daisy Jones & the Six, dopo il concerto di Chicago del 1977, all’apice della loro carriera, si sono sciolti. Senza un apparente motivo, ciascun membro ha intrapreso la propria strada senza più ritrovarsi o confrontarsi. Cosa è successo prima di quel concerto?

Per scoprirlo, bisogna seguire la seconda linea temporale, che parte nel 1968 ed accompagna il pubblico lungo gli anni Settanta, seguendo il percorso compiuto dalla band, tra successi, fallimenti e nuovi successi, tramite il punto di vista dei due frontman, Billy Dunn (Sam Clafin) e Daisy Jones (Riley Keough).

Un romanzo musicale (ma quanto?)

La storia è tratta dall’omonimo romanzo del 2019 di Taylor Jenkis Reid, che ha dichiarato di essersi ispirata a quando, da piccola, seguiva in tv le esibizioni dei Fletwood Mac. Lo sforzo fatto dalla serie -prodotta tra le altre dalla casa di produzione di Reese Whiterspoon– è notevole soprattutto nel costruire una tracklist che provi ad essere credibile per una band rock anni Settanta e che abbia in sé le carte necessarie per poter diventare un successo.

In realtà, i brani originali sentiti nel corso degli episodi (ed acquistabili tutti online), non sono riuscitissimi. Manco a farlo apposta, l’unica canzone che entra in testa è “Look at us now (Honeycomb)”, brano chiave nel rapporto di odio-amore tra Billy e Daisy (che potete sentire qui sopra).

Quando si fa una serie musicale il rischio è proprio questo: che tra le varie canzoni proposte, solo una o al massimo due siano davvero meritevoli ed all’altezza della situazione. L’impressione è, però, che alla serie poco importi di quanto possano risultare credibili come dei successi questi brani, perché Daisy Jones & The Six vuole raccontare altro.

Nascita e morte di una (finta) band

Nel mostrare la formazione, la crescita e l’esplosione dei The Six, la band a cui poi si aggiunge Daisy Jones decretandone il successo, la serie crea di fatto un mondo fittizio, che praticamente si dimentica della musica e soprattutto degli artisti realmente esisititi negli anni in cui è ambientata la serie.

Ci si ritrova così a dover fare lo sforzo di credere che questo gruppo di musicisti che decide a cuor leggero di andarsene dalla loro città natale per cercare la fama a Los Angeles potesse veramente ottenere il successo che si mostra negli episodi.

Focalizzandosi così tanto sulla band, sui capricci di alcuni di loro, sulle tensioni sentimentali di altri e sulla sete di riscatto di Daisy, fin da piccola in cerca di un posto nel mondo che possa unire la sua passione per la musica al bisogno di sentirsi valorizzata, i dieci episodi si dimenticano di raccontare il contesto in cui tutto ciò avviene. E’ come se oltre a Daisy Jones & The Six, in quegli anni, non fossero esistite altre band.

E se fai una serie musicale ambientata negli anni Settanta con questa presunzione, non puoi aspettarti di risultare totalmente credibile. Ecco perché questa non è una vera serie musicale, ma è l’ennesima storia d’amore ed amicizia che si nasconde dietro un’idea originale, (questo va detto), ma chiede al pubblico di fare uno sforzo che non dovrebbe fare.

Quel finale che plagio è dir poco

Se avete visto Daisy Jones & The Six fino alla fine, ve ne sarete resi conto: quel finale non è la prima volta che lo vediamo, ma è già stato utilizzato altrove.

-ATTENZIONE: SPOILER SUL FINALE-
L’ultima puntata rivela che il documentario è un’idea di Julia, la figlia di Billy e Camila (Camila Morrone), moglie di Billy e motivo per cui lui resiste a Daisy, anche quando la moglie capisce che tra i due ci sono dei sentimenti. Julia ha raccolto tutte le testimonianze della band, ma ha una sorpresa per il padre e per Daisy: la madre, che tempo prima è morta di cancro, ha lasciato un video messaggio in cui chiede a Billy di andare a bussare alla porta di Daisy ed a Daisy di aprire. Cosa che i due fanno.

Ora, non serve chissà quale intuito per capire che questo è praticamente lo stesso finale di How I Met Your Mother, in cui il protagonista rivelava ai figli di aver raccontato loro la storia di come ha conosciuto la madre (anche lei morta) solo per avere l’ok per poter uscire con il suo storico amore. Certo, ci sono delle differenze, ma l’idea del lungo flashback per motivare le ultime scene e giustificare il lieto fine tra i due protagonisti c’è tutto.

In molto hanno criticato il finale di HIMYM perché giudicato fuori tempo massimo e più adatto sela serie fosse finita qualche stagione prima (è invece durata nove stagioni), mentre in Daisy Jones & The Six funziona meglio, proprio perché il racconto inizia e si conclude più rapidamente ed il pubblico è ancora fresco di “ship” per i due cantanti.

Funzionalità a parte, la serie di Prime Video offre ai telespettatori di fatto un finale che, via via si compone, diventa chiaro a tutti e che, così, perde quella potenza che si sperava potesse avere. Piuttosto, rivela quello che Daisy Jones & The Six è stato fin dall’inizio, ovvero una serie molto furba, capace di agganciare gli spettatori facendogli credere di essere una cosa e finendo per essere un’altra, fino a proporre una conclusione che più che essere a favore del romanticismo è a favore della convenienza.