Cos’hanno in comune Dahmer e Squid Game? Molto più di quanto si possa pensare. Entrambe, innanzitutto, sono uscite su Netflix a metà settembre; entrambe non hanno ricevuto dalla piattaforma un particolare piano di lancio promozionale eppure, entrambe, hanno registrato numeri record ed, al contempo, pesanti critiche.
È successo a Squid Game l’anno scorso quando poche settimane dopo la sua uscita era ormai acclamato che sarebbe diventata la serie tv più vista di sempre della piattaforma, e la storia si sta ripetendo con Dahmer. Uscita il 21 settembre 2022, la nuova serie ideata da Ryan Murphy (che si conferma un vero talento nel riuscire a trasporre sul piccolo schermo la realtà passata e presente) nelle sue prime due settimane di disponibilità è entrata nella Top Ten delle serie tv di Netflix in lingue inglese più viste di sempre della piattaforma, con 56 milioni di account che hanno visto la miniserie.
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Impressionate il numero ore di visualizzazioni della serie: dal 21 settembre al 2 ottobre, a livello globale, quasi 300 milioni. E considerato che la serie è ancora “fresca” e che il passaparola sta ancora avvenendo, questi numeri sono destinati a crescere ed a portare Dahmer ancora più in alto, rendendola una delle produzioni di Netflix più prolifiche.
Proprio come accaduto con Squid Game, anche Dahmer -storia che porta in tv il caso del “mostro di Milwaukee”, ovvero Jeffrey Dahmer, qui interpretato da un Evan Peters ancora una volta all’altezza della situazione- non ha goduto di un particolare lancio promozionale da parte di Netflix. L’idea della piattaforma sembra essere stata quella di produrre una serie così controversa e di fatto difficile da promuovere considerati i temi e le storie trattate, senza però spingere su una promozione che sarebbe potuta essere fuori luogo, visto che la storia di Dhamer ha coinvolto e coinvolge tutt’oggi le numerose famiglie ed amici delle sue vittime.
Affidarsi al passaparola è però bastato, e ce lo dovevamo aspettare: la storia di Jeffrey Dahmer, responsabile tra il 1978 e il 1991 di diciassette omicidi che hanno contemplato anche pratica brutali come la necrofilia e il cannibalismo, è una di quelle che sono rimate attaccate all’America, anche anni dopo la morte dell’assassino, avvenuta in carcere nel 1994. Raccontarne la storia in forma seriale poteva essere un azzardo, certo, ma qui è entrato in gioco Ryan Muprhy che, insieme al fidato collega Ian Brennan, hanno saputo costruire in racconto inquietante ed estremamente fedele alla realtà, forse anche troppo.
E proprio come successo con Squid Game, insieme al successo sono giunte le polemiche. La prima riguarda il fatto che Netflix abbia inserito il tag LGBTQ per descrivere la serie (i tag sono utilizzati per classificare un prodotto e permettere così agli abbonati di scegliere cosa vedere a seconda delle tematiche più vicine a loro), causando indignazione nella stessa comunità LGBTQ per l’eventuale associazione tra le battaglie da essa condotte e il protagonista della miniserie.
Poi è stata la volta di Kim Alsup, coordinatrice della produzione della serie, che sui social ha accusato il set di averle causato dei profondi traumi, dovuti principalmente al fatto di essere costantemente confusa con una sua collega, l’unica altra donna di colore al lavoro sulla produzione. Inoltre, secondo Alsup, non sarebbero stati messi a disposizione di attori e troupe coordinatori per la salute mentale, creando così un ambiente di lavoro difficile da vivere.
Infine, i parenti delle vittime. Rita Isbell, sorella di Errol, una delle vittima di Dhamer, fu protagonista in Tribunale di uno scatto d’ira contro l’assassino che fece il giro dei media. La scena è stata ricreata nella serie, con DaShawn Barnes che ha interpretato in maniera assolutamente precisa quel momento: Isbell, contattata da Insider, ha ammesso di aver provato un forte fastidio nel vedere la scena e nel sentire risalire a galla le stesse sensazioni. Oltre a lei, anche le famiglie delle altre vittime hanno espresso perplessità di fronte ad un’operazione simile.
Un’operazione che riapre un dibattito, quello sulla rappresentazione della cronaca nera sugli schermi, che non si è mai effettivamente chiuso e mai si chiuderà. Perché quando il ciclone su Dahmer sarà passato, basterà che un’altra serie riporti alla ribalta un altro fatto di cronaca perché si torni sulla stessa questione. E si torni, forse, a parlare di nuovi numeri record.