Se amate leggere recensioni e commenti online sulle serie tv che seguite, probabilmente questo non è il primo articolo che leggerete in cui si sostiene quanto stiamo per scrivere. Evidentemente, però, se già in tanti in passato ne hanno parlato, un fondo di verità ci deve pur essere. A cosa ci riferiamo? Al fatto che Better Call Saul possa essere considerata migliore di Breaking Bad, la serie da cui deriva.
Se ne parla già da qualche anno, ovvero da quando il percorso dello spin-off sull’avvocato Saul Goodman non vedeva ancora il suo traguardo finale. Ma ora, a tre episodi dalla fine della serie, quella che fino a qualche tempo fa era una riflessione su cui discutere sembra ormai essere diventata una certezza.
Vince Gilligan e Peter Gould nel mettere in scena questo prequel spin-off abbiano fatto qualcosa di estremamente differente rispetto agli altri prodotti simili.
Sì, Better Call Saul è il tipico esempio dell’allievo che supera il maestro. E questo non vuole assolutamente sminuire la qualità e l’importanza che Breaking Bad ha avuto all’interno della Storia delle serie tv degli anni Dieci del Duemila. Eppure, è innegabile cheSolitamente, quando un network/piattaforma ordina una serie derivata da un’altra di successo lo fa con un obiettivo solo: tenersi la maggior parte possibile del pubblico che ha seguito la serie madre fino alla fine. Una ragione più commerciale, vicina alla necessità di monetizzare ancora di più quel successo, piuttosto che legata ad un’esigenza narrativa.
Con Better Call Saul, invece, le cose sono andate diversamente. E’ indubbio che nel rendere questo spin-off qualcosa di speciale è stato fondamentale scegliere il giusto personaggio, e non poteva esserci scelta migliore dell’avvocato difensore dei criminali e delle cause perse. Se già in Breaking Bad era riuscito ad attirare l’attenzione degli spettatori come “scene-stealer”, rubando spesso la scena ai protagonisti, nel prequel Bob Odenkirk fa sua l’impresa di rendere tridimensionale un personaggio apparentemente superficiale, sorretto da una backstory apparentemente semplice ma fedele al personaggio fino all’ultimo.
Gilligan e Gould hanno pensato a Better Call Saul prendendo sì spunto dal mondo di Breaking Bad, ma riuscendo al tempo stesso a crearne uno nuovo. Le sei stagioni della serie (tutte disponibili su Netflix) possono fondamentalmente suddividersi in due parti: le prime tre costruiscono le motivazioni che porteranno Jimmy McGill -questo il vero nome di Saul Goodman- a diventare chi abbiamo conosciuto nella serie madre, mentre le ultime tre concretizzano quelle motivazioni in vere e proprie azioni, accelerando sempre più il ritmo verso il finale.Sebbene sappiamo già come succederà a Saul grazie al finale di Breaking Bad, restiamo attirati dalla genesi di questo personaggio che, proprio come Walter White (Bryan Cranston), vive una parabola che lo trasforma radicalmente dalla prima all’ultima stagione. Se Better Call Saul è diventata una di quelle serie che non possono essere ignorate, gran parte del merito sta nel coraggio avuto dai suoi creatori di non appoggiarsi semplicemente su quanto già costruito in Breaking Bad: Gilligan e Gould, per assurdo, arrivano anche a dimenticarsi quanto fatto con la serie madre, dando a Better Call Saul, almeno nelle prime stagioni, il sapore di un legal drama familiare. L’azzardo, però, ha ripagato, eccome.
Nel dare vita al “nuovo” Saul Goodman serviva però che fosse circondato non solo dalle giuste motivazioni, ma anche dai giusti personaggi. L’equilibrio con cui Gilligan e Gould hanno saputo pescare dal mondo di Breaking Bad e dare vita a nuovi ruoli è qualcosa di raramente visto in tv. Se per la gioia dei fan fin dalla prima stagione i riferimenti ai personaggi già visti nella serie originaria non mancano: parliamo ovviamente di Mike (Jonathan Banks), reso ancora più profondi grazie allo spazio riservatogli dal prequel, ma anche di Mark Margolis, interprete di Hector Salamanca, fino a Gus Fring, di cui Giancarlo Esposito torna a vestire i panni dalla terza stagione), i nuovi ingressi sono diventati in breve tempo il punto di forza di una trama fortissima, da Nacho Varga (Michael Mando) e Lalo Salamanca (Tony Dalton).
Non possiamo non citare, però, il personaggio di Kim Wexler (Rhea Seehorn), prima amica, poi fidanzata ed infine moglie di Saul. Un personaggio scritto talmente bene e così ben interpretato che più volte, seguendo la serie, viene da chiedersi come sia possibile che non sia mai stato inserito in Breaking Bad. Anche in questo caso, il lavoro dei creatori della serie è stato tale da riuscire a far incastrare la sua storia con quella di Jimmy/Saul in modo organico, con la risposta alla domanda “che fine farà Kim?” destinata a giungere solo con il finale di serie.
Quello che però ormai sappiamo è che Kim ha avuto un peso non indifferente nell’evoluzione di Saul. Sebbene tra i due le effusioni in scena siano inserite in modo molto cauto (e non si dicono mai “ti amo”, almeno fino a un certo episodio della sesta stagione), tra Kim e Jimmy si sviluppa una relazione i cui esiti diventano emblematici per capire cosa abbia portato Saul Goodman a cedere alla tentazione di diventare l’avvocato criminale visto in Breaking Bad.
Perché, a tre episodi dal finale (nel terzultimo, non a caso dal titolo “Breaking Bad”, rivedremo Cranston e Aaron Paul), chi. ha seguito Better Call Saul ha ormai capito che dietro a questa folle storia c’è l’amore. Che sia inteso come quello disperatamente cercato all’interno della propria famiglia o fuori da essa, anche Jimmy McGill muove i suoi passi spinto dalla necessità di sentirsi amato. E Saul Goodman nasce come prodotto di questa ossessiva, ma silenziosa, ricerca. Ecco perché, anche se già è stato detto più volte, Better Call Saul è diventato migliore di Breaking Bad.