Baby Reindeer, storia di un successo inaspettato (ma che guarda dentro le insicurezze di ognuno di noi)
Baby Reindeer da storia inquietantemente vera a spettacolo teatrale, fino alla miniserie Netflix: un successo meritato per un racconto stratificato che va oltre il caso di cronaca e guarda dentro ognuno di noi
Inutile fare troppe premesse: se state leggendo questo articolo, è perché avete già visto (o state vedendo) Baby Reindeer o ne avete sentito già parlare altrove. La miniserie in sette episodi disponibile su Netflix dall’11 aprile 2024 non è solo la “serie del momento” (quante volte abbiamo usato questa espressione, a volte anche a sproposito), ma è un vero e proprio ritorno alle origini per questa e tutte le altre piattaforme streaming. Perché? Scopriamolo insieme.
Il successo di Baby Reindeer
Sono bastate meno di due settimane a Baby Reindeer per diventare la serie più vista del momento su Netflix: sono 89 i Paesi in cui ad oggi nella Top Ten dei titoli più visti della piattaforma, in 42 dei quali (tra cui l’Italia) ha raggiunto il primo posto.
A livello globale, in due settimane Baby Reindeer ha raccolto 13,3 milioni di visualizzazioni e 52,8 milioni di ore viste dagli abbonati, superando facilmente altre produzioni a cui era stata riservata una campagna di lancio ad hoc, come Il Problema dei 3 Corpi, The Gentleman e la sesta stagione di The Circle.
La storia di Baby Reindeer: dalla realtà al successo a teatro
Un successo, questo, inaspettato per alcuni versi, ma per altri no. Perché Baby Reindeer, prima di diventare il nuovo fenomeno di Netflix, era stato uno spettacolo autobiografico scritto e interpretato da Richard Gadd (anche protagonista della miniserie), che ha debuttato nel 2019 all’Edinburgh Festival Fringe.
Gadd decide coraggiosamente di portare sul palco una storia realmente vissuta da lui e che ormai anche noi abbiamo conosciuto bene: durante i suoi vent’anni, l’autore fu perseguitato da una donna, che lo inondò di mail, messaggi vocali e lettere. Nello specifico, Gadd ricevette più di 41.000 e-mail, oltre 350 ore di messaggi vocali, 744 tweet, 46 messaggi su Facebook, centinaia di lettere e vari regali insoliti, tra cui una renna giocattolo.
Un incubo cominciato, proprio come nella miniserie, con un incontro nel pub in cui Gadd ai tempi lavorava come barista: per quattro anni questa donna si presentò tutti i giorni al bancone, diventando da semplice ammiratrice a stalker. Nella miniserie, Gadd ha cercato di modificare il personaggio ispirato a questa donna (che nella storia si chiama Martha Scott ed è interpretata da Jessica Gunning), lasciandone alcuni tratti distintivi ma facendo in modo che nessuno potesse risalire alla sua vera identità, né tantomeno lei stessa potesse rispecchiarsi nel personaggio di Martha.
Tornando allo spettacolo, Baby Reindeer vinse due premi: lo Scotsman Fringe First Award e lo Stage Award. Il passo decisivo fu però il debutto a Londra, al Bush Theatre: qui lo spettacolo ottenne un altro premio, l’Off West End Theatre Award. La permanenza e il successo a Londra continuò per qualche mese, fino a quando ci si mise di mezzo la pandemia, che bloccò tutti gli spettacoli in scena. Questo non impedì a Baby Reindeer di vincere un altro premio, l’Olivier Award. Un successo che attirò l’attenzione di Netflix: il resto è una storia che conosciamo e che porterà sicuramente a nuovi premi: è già certo che la serie correrà agli Emmy Awards nelle categorie delle Miniserie, puntando a fare incetta di riconoscimenti.
Baby Reindeer, recensione di una serie coraggiosa ma onesta
Il caso di Baby Reindeer è davvero raro: non solo perché sono sempre di meno le serie che esplodono tra il pubblico praticamente dal nulla e grazie al passaparola, ma anche per la stratificazione che il racconto contiene e che permette, visione dopo visione, di soffermarsi su vari punti di un racconto inquietantemente reale e disturbante.
Perché se è vero che le milioni di visualizzazioni ottenute in queste settimane da Baby Reindeer sono sicuramente frutto in gran parte di chi ha divorato tutti e sette gli episodi uno dopo l’altro, è altrettanto vero che un conto è “vedere” questa serie, un altro “guardarla”. E se la si guarda per bene, ci si troverà dentro una serie di inquietudini che ne rendono difficile, ma necessaria, la sua comprensione.
Dietro l’apparente semplice storia tra il thriller e la dark comedy di un episodio di stalking, Gadd ha voluto porre l’attenzione anche sui malesseri che lo affliggevano prima ancora dell’incontro con la donna che per anni lo ha perseguitato. L’autore, facendo un atto di estremo coraggio ed autoanalisi, ammette candidamente che l’incontro con questa donna, in fin dei conti, è stato il fondo da lui toccato dopo una serie di vicende in cui aveva finito per perdere la sua identità.
Baby Reindeer racchiude in sé tanti di quegli argomenti d’attualità e difficilmente snocciolabili con ragione dentro una serie tv che spesso si finisce per archiviarli in maniera semplice e didascalica. La straordinarietà di quest’opera sta invece nella scrittura che, tenendo sempre alto il ritmo e l’attenzione del pubblico, passa dallo stalking alla violenza sessuale, dall’identità di genere alla paura di esporsi, dal rapporto con i genitori all’ossessione di raggiungere la popolarità.
Come ci riesce? Usando il linguaggio più semplice e immediato che conosciamo, quello dell’onestà. In Baby Reindeer non ci sono sovrastruttura, metafore, stratagemmi ad uso e consumo della narrazione: c’è solo l’onestà intellettuale con cui Richard Gadd ha voluto raccontare la sua storia, senza neanche avere la pretesa di salire in cattedra e insegnare agli altri come comportarsi in situazioni simili a quelle da lui vissute.
Gadd e il personaggio protagonista, una propria versione fittizia, non è affatto l’eroe del racconto: è piuttosto vittima triplice. Della stalker, del suo violentatore ma anche (e, oseremmo dire, soprattutto), di se stesso. Se Baby Reindeer sta ottenendo tutto questo meritato successo, il motivo sta nell’onestà con cui ci viene ricordato, brutalmente e senza filtri, che amare noi stessi deve essere più importante del farsi apprezzare.
Ecco che, allora, nel suo finale straziante e geniale al tempo stesso Baby Reindeer diventa speculare: come uno specchio, appunto, ci mette di fronte alle nostre insicurezze, chiedendoci di tornare a quell’umanità che stiamo perdendo per qualche like in più, ma anche una comprensione dell’altro che, ormai, da motivo di incontro è diventato motivo di scontro.
Non ci si può non chiedere “cosa avrei fatto io?” fin dal primo episodio: andando oltre le risposte più scontate, con Baby Reindeer anche noi spettatori siamo sollecitati in qualche modo ad agire. Il come e il dove resta nel nostro privato: ecco perché questa serie è più di un fenomeno del momento.
Netflix e la lezione del passaparola
Dicevamo che Netflix con il successo di questa serie è un po’ tornata alle origini. Ricordate i bei tempi in cui una serie, senza alcuna promozione o lancio, usciva dai propri confini e conquistava il pianeta grazie alla propria forza? È successo con serie diventate poi iconiche, come La Casa di Carta (che agli esordi non godeva affatto di alcun lancio promozionale da parte della piattaforma), ma negli ultimi anni il marketing ha decretato cosa gli abbonati delle piattaforme -non solo Netflix- dovessero vedere e far salire sul podio dei titoli più visti.
Baby Reindeer ha ribaltato o, meglio, riportato questo sistema alle origini: senza alcuna promozione, con un inserimento in catalogo piuttosto silenzioso, ha conquistato il mondo in pochi giorni. Merito dell’algoritmo? Anche, ma a determinarne il successo è stato soprattutto il passaparola: sui social, dal vivo, tutti hanno iniziato a parlare di questa serie, ripristinando la regola per cui è il pubblico il primo giudice del successo di un prodotto.
E chissà quante altre serie tv si trovano incastrate tra un colossal e una “serie evento”, in attesa di essere scoperte e ottenere la meritata visione. Baby Reindeer ce l’ha fatta, e non potremmo essere più contenti di questo risultato.