Amore criminale, Matilde D’Errico è ideatrice, autrice e regista del programma – l’intervista di TvBlog
TvBlog intervista Matilde D’Errico, che di Amore criminale è ideatrice, autrice e regista. Ci racconta sette anni di esperienza nel campo della violenza contro le donne.
Domani sera andrà in onda la quarta delle sei puntate previste per questa nuova stagione di Amore criminale, dove troviamo alla conduzione la brava Barbara De Rossi. Dopo aver intervistato l’attrice, che ci ha raccontato quanto conti per lei questa nuova esperienza, professionale e umana, ho deciso di fare due chiacchiere con Matilde D’Errico, che della trasmissione è una delle ideatrici, insieme a Maurizio Iannelli e Luciano Palmerino, oltre ad esserne autrice e regista. Ho infatti ritenuto che nessuno, meglio di lei, potesse raccontarci come è nata la trasmissione, come vengono scelte le storie da raccontare, come ci si rapporta alle famiglie delle vittime. L’occasione è stata buona anche per parlare del problema che si fa sempre più pressante negli ultimi tempi, quello della violenza sulle donne, e ne è nato un confronto molto interessante. Non per niente la stessa Matilde viene spesso invitata a convegni e iniziative sul tema, proprio per portare la sua esperienza diretta sviluppata nel corso di 7 anni di lavoro per Amore criminale.
Come nasce l’idea di questo programma?
Nasce quando, insieme a Maurizio Iannelli e Luciano Palmerino – gli altri due autori – , ho letto un articolo sul fatto che in Italia la prima causa di morte tra le giovani donne è l’omicidio per mano maschile e questo articolo, trovato da Maurizio, si basava su una ricerca statistica dell’EURES secondo la quale gli omicidi che avvenivano in ambito familiari erano in numero superiore ai morti ammazzati per criminalità organizzata. Dopo aver letto quell’articolo ne abbiamo iniziato a parlare e abbiamo iniziato delle ricerche per scoprire se era vero, perché ci sembrava una cosa strana. In verità ci siamo ben presto resi conto che le donne uccise in Italia dagli uomini erano davvero tantissime. Così abbiamo iniziato a scrivere la trasmissione, con l’idea di costruire un progetto in cui si parlasse di amore e morte e capire perché l’amore si trasforma nel suo contrario. Già dall’inizio avevano in mente di fare una docufiction, perché era secondo noi la forma di linguaggio più giusta, e anche perché noi siamo pioneri di questo genere televisivo, dai tempi di Residence Bastoggi che realizzammo per RaiTre ormai una decina di anni fa.
Perché l’idea di parlare di violenza con delle docufiction?
La docufiction permette di usare la finzione per narrare il reale. La sfida era quindi provare a unire due cose apparentemente lontane, la finzione, la ricostruzione da una parte, con l’aspetto documentaristico dall’altro. Abbiamo poi scoperto, sapendole dosare bene, che l’una dava forza all’altra, perché le ricostruzioni di fiction assumono un altro valore nel momento in cui gli metti vicino l’intervista ai testimoni del fatto, o le foto reali dei protagonisti o i loro filmini, così come questi aspetti documentaristici assumono un valore diverso nel momento in cui gli affianchi una fiction con degli attori. La difficoltà è quella di trovare un equilibrio tra la realtà – così come è accaduta – e rappresentarla, e concederti quella libertà di metterla in scena come meglio credi. Tutte le nostre storie hanno comunque un importante e approfondito studio degli atti giudiziari, in modo che possiamo essere molto attinenti alla realtà. Le interviste poi sono importantissime: le nostre non solo interviste giornalistiche, non c’è nulla da svelare, sono fatte in chiave narrativa, sono il coro della tragedia.
A questo proposito, le famiglie hanno un ruolo fondamentale nella vostra trasmissione. Immagino non sia semplice rapportarsi con loro che portano un dolore così grande…
È vero. È la parte più delicata del nostro lavoro. Intanto noi raccontiamo solo storie dove c’è il pieno consenso delle famiglie delle vittime. Il nostro non è un programma di cronaca nera dove in fiction racconti il fatto e basta. Ci sono le interviste ai familiari che hanno una grande importanza affettiva. Ovviamente si fa un grande lavoro con loro, sin dal primo contatto, che è quello che richiede più delicatezza, perché ti presenti, presenti il programma, presenti il tuo lavoro, gli fai capire cosa devi fare. Generalmente è un momento in cui poi loro, vedendoci, si tranquillizzano molto. Comprendono che lo stile della puntata è di un certo tipo, che la nostra è una vera e propria trasmissione di servizio pubblico, e quindi ha un’utilità sociale molto forte. Per loro è molto importante, anche perché è un po’ come riportargli in vita la figlia, la sorella, la mamma in quei giorni. Ci sono dei tempi e un’energia dedicati a questo aspetto. Una cosa che ho sempre voluto fortemente, ad esempio, è che i familiari non subiscano la puntata: così spiego, racconto, come girerò, cosa farò, le mie scelte narrative. E tutto è sempre fatto con grande rispetto nei loro confronti, senza magari fornire tutti i dettagli che si trovano negli atti giudiziari e che magari loro non conoscono. Anche nella narrazione cerchiamo di non spingere troppo il pedale sugli aspetti più morbosi, che potrebbero essere anche di sicuro ascolto e incuriosire il pubblico televisivo, proprio per non tradire la fiducia che queste famiglie ci danno.
Come vengono scelte le storie da trattare, visto che i casi sono tantissimi?
Ci sono delle persone che fanno questo lavoro, che aiutano noi tre autori e che sono state formate per questo. In questo tipo di trasmissione ci vuole un determinato approccio, un certo tipo di sensibilità e delicatezza, e abbiamo quindi scelto un gruppo molto motivato, che dà l’anima per questo lavoro. A queste persone abbiamo quindi trasferito i criteri per cercare le storie. Loro fanno una prima scrematura, ci sottopongono quindi dei casi e poi noi li approfondiamo con loro. Certamente cerchiamo di scegliere delle storie che possano essere un archetipo, quelle storie in cui ci si può riconoscere, quelle che magari una donna, quando le vede da casa, può rendersi conto di vivere una situazione simile, e questo può aiutarla a capire che prima che sia troppo tardi deve decidere di allontanarsi da un uomo.
Poi cerchiamo di essere attenti a non scegliere solamente storie che accadono in una certa area geografica, proprio perché un grande luogo comune che noi, con Amore criminale, cerchiamo di sfatare è quello di pensare che queste storie accadano solo al centro-sud. Per questo raccontiamo storie che vanno dalla Valle d’Aosta alla Sicilia.
L’altro criterio è quello di raccontare storie che siano rappresentative di tutti gli ambienti sociali e culturali, perché un altro luogo comune da sfatare è che la violenza sulle donne accada solo in contesti semplici o socialmente degradati. Invece dopo sette edizioni di Amore criminale posso affermare che il fenomeno della violenza sulle donne è assolutamente trasversale e che noi siamo entrati in case e situazioni apparentemente insospettabili.
Siccome poi facciamo televisione, e non ce lo possiamo dimenticare, dobbiamo rappresentare e raccontare delle storie che vengano viste, e per questo cerchiamo delle storie diverse tra loro e che abbiano un intreccio narrativo potente. Una volta individuate le storie da raccontare, dobbiamo cercare il contatto con la famiglia. Noi per scelta non cerchiamo un contatto diretto con loro, ma ci rivolgiamo agli avvocati di parte civile, che poi valutano la cosa e ci mettono in contatto con le famiglie.
Infine, va detto che noi non raccontiamo storie accadute il giorno prima, sono tutte storie che hanno almeno il primo grado di giudizio chiuso, da una parte perché non ci sembra il caso di piombare nella vita di queste famiglie che hanno appena subito una tragedia di questo tipo, poi perché non siamo una trasmissione di cronaca nera in cui dare al telespettatore delle ipotesi, delle notizie, e così via. Lo scopo della trasmissione è quello di mostrare le tappe psicologiche e narrative dalle quali si capisce come un rapporto di coppia scivoli verso la violenza e l’omicidio.
Ti occupi di violenza sulle donne da tanti anni. Quale è l’aspetto che ti colpisce di più ogni volta?
Da donna quello che mi colpisce è come noi donne in alcune situazioni perdiamo la nostra forza e ci lasciamo manipolare. Mi meraviglia come donne, anche in gamba e intelligenti, possano subire certe umiliazioni.
E ti sei data una risposta su cosa spinga una donna a sopportare la violenza fino alle estreme conseguenze?
Prima della violenza fisica c’è sempre una grande manipolazione psicologica. Gli atti di violenza fisica non spuntano mai all’improvviso, ma c’è sempre prima un lento e graduale processo di scivolamento nella perdita della stima di se stesse, per esempio. Cosa di cui la donna non si accorge subito. Gli uomini violenti sono uomini che capiscono perfettamente quale è il tallone di Achille, la fragilità della persona che hanno di fronte, e lì scavano, lì operano. È come un’asticella che ogni giorno si abbassa, ogni volta di più. Poi subentra la violenza. Spesso le donne non se ne vanno per paura, perché sono minacciate, perché hanno dei figli, perché non lavorano e non hanno i soldi per essere indipendenti, perché spesso sono sole in un paesino e le stesse famiglie d’origine non capiscono quello che sta accadendo alle proprie figlie.
Capita anche, però, che le donne vogliano ribellarsi ma non trovino la giusta tutela. Quale è il problema?
Intanto c’è un problema legato agli strumenti che le forze dell’ordine hanno per aiutare le donne. C’è anche da dire che le forze dell’ordine, senza un provvedimento dell’autorità giudiziaria, possono fare ben poco, e questo è un problema legislativo che andrebbe affrontato. C’è poi un problema di risorse: le forze dell’ordine sono sotto organico, non possono controllare tutte le donne che subiscono violenza. Intanto andrebbe concessa loro una maggiore discrezionalità e libertà di movimento in questi casi, per capire quando possono agire senza aspettare le lungaggini burocratiche che ci sono ora. Occorrerebbe poi del personale altamente specializzato, pronto a raccogliere le denunce delle donne che subiscono violenza. Per fortuna ora questo si comincia a fare. La legge sullo stalking va benissimo, ma se una donna denuncia il proprio compagno o ex compagno, quella donna poi deve essere messa in grado di andare via. In Italia i centri antiviolenza, delle case protette per le donne vittime di violenza, hanno solo 500 posti letto in tutto il Paese e quei centri non hanno soldi. Ci sono donne che lì lavorano gratis. Ci vogliono quindi i soldi per sostenere queste case protette e poi dotare le forze dell’ordine degli strumenti giusti per poter intervenire subito.
Se vuoi ora puoi rispondere a chi dice che con il vostro programma portate in tv il dolore e la violenza…
Prima di tutto rispondo che possono cambiare canale e non guardare la nostra trasmissione. Poi ti rispondo da persona che viene dal mondo del documentario, come gli altri due autori: si può parlare di tutto, si può raccontare tutto, la differenza è solo come lo fai. Tanti anni fa vidi il documentario di un documentarista americano che raccontava la vita di un reparto di malati terminali, raccontava il fine vita, un lavoro di una complessità e di una delicatezza pazzesche. Io sono rimasta affascinata da quel lavoro perché ho capito che si può raccontare tutto e farlo nella maniera giusta. L’importante è capire che sguardo ha l’autore su quello che sta raccontando. Credo che con Amore criminale noi diamo una carezza a queste donne che non ci sono più. A chi dice che nel nostro programma c’è violenza chiedo: quanta violenza c’è in un telegiornale? Nessuno dovrebbe fare più telegiornali, né film, allora. Parlare di violenza significa far capire cosa può accadere in certe situazioni, va raccontata perché fa parte della vita. È sempre un’analisi un po’ buonista e un po’ ipocrita quella di chi dice che la violenza non va portata in tv.
Prima Luisa Ranieri, poi Barbara De Rossi. Dopo Camila Raznovich, come è nata l’idea di proporre la conduzione – o meglio la narrazione – a un’attrice?
Intanto ci tengo molto a sottolineare, come hai detto, che non è una vera conduzione ma una narrazione. Dopo le cinque edizioni con Camila – e neanche per lei si trattava di conduzione, ma recitava come sempre un copione scritto da noi – abbiamo deciso di andare ancora di più in quella direzione, cercando un’attrice, perché Amore criminale non è una trasmissione di inchiesta giornalistica e non vuole esserlo. Per questo a noi non serve un conduttore nel senso classico, ci servono un volto e una voce che rappresentino al meglio la storia che stiamo raccontando, che dia voce a noi autori. Da qui la scelta di due attrici, prima di Luisa Ranieri e poi ora di Barbara De Rossi. Parlando di Barbara – visto che ora c’è lei – posso dire che è davvero bravissima e ha una bellissima sensibilità. Quando l’ho incontrata la prima volta, una delle cose che mi ha colpito di più è stata la grande attenzione che già aveva sul tema della violenza sulle donne. L’ho subito sentita una di noi. E poi ha una capacità attoriale straordinaria. Posso dire che è stata davvero una bella scommessa.
Continuerete con questo vostro impegno contro la violenza sulle donne?
Dopo questa edizione Amore criminale tornerà sicuramente in onda. Ancora non sappiamo quando, ne dobbiamo ancora parlare con la Rete e loro stessi devono capire quali programmi mettere in palinsesto. È chiaro che la nostra trasmissione non si prepara dall’oggi al domani, ha dei tempi di preparazione per i quali non possiamo certamente tornare in onda a breve. L’importante è comunque poter continuare, anche perché credo che poi certi programmi non siano più solo trasmissioni televisive ma siano veri e propri progetti importanti dal punto di vista sociale.