Alfredino, una fiction italiana tra luci e ombre (proprio come Vermicino): la recensione in anteprima
Una ricostruzione didascalica ma capace di emozionare mostrando quel che non si è mai visto in tv: il pozzo. E non l’agonia di un bambino.
Ha l’aria della docufiction Alfredino – Una storia italiana, la miniserie in quattro parti in onda su Sky Cinema, e in streaming su NOW, in prima serata lunedì 21 e lunedì 28 giugno. A 40 anni dalla tragedia di Vermicino, la fiction prodotta da Sky e Lotus Production (società di Leone Film Group) riesce a raccontare quanto successo dal 10 al 13 giugno 1981 concedendo poco alle corde del melodramma all’italiana – che per un prodotto del genere era semplice toccare – ma ricostruendo quanto successo nel pozzo attraverso la testimonianza sceneggiata di chi c’era e trasponendo in maniera filologica quanto visto invece in tv nei giorni del dramma collettivo.
Alfredino nel pozzo non si vede mai, la sua voce affiora – ricostruita – solo due volte (quando serve), non si ipotizza mai come possa essere caduto: non c’è nessuna concessione al “come potrebbe essere andata”, ma ci si ferma ai fatti tràditi, quelli più noti e alcuni rimasti riservati. Di questo mi sa che dobbiamo ringraziare Franca Rampi che deve aver supervisionato con attenzione il progetto fictional perché non si scivolasse (mai più) nel sensazionalismo gratuito.
Ne deriva un approccio didascalico nella ricostruzione dei fatti. Ma sebbene didascalica nella forma e nei contenuti, questa ricostruzione riesce a coinvolgere emotivamente senza retorica aggiunta grazie alla scelta di fare del pozzo, della sua verticalità, dei suoi spazi angusti un protagonista anche visivo. Quel budello stretto e fangoso, buio e infinito, che ‘vediamo in tv‘ di fatto per la prima volta, basta e avanza a far sentire cosa siano stati quei giorni, anche a chi non li ha mai vissuti.
In questo la scrittura mostra tutta la sua delicatezza e la sua spietatezza: non ignora mai Alfredino nel pozzo, lo fa sentire tramite le risposte di chi dalla superficie cercava di calmarlo, tra racconti di Mazinga, liti con la mamma, promesse non mantenute. Alfredino nel pozzo non si vede mai, non viene mai ‘re-enacted’, non si simula neppure quel che può aver visto Angelo Licheri nel suo (pen)ultimo disperato tentativo di tirare su un bambino esausto; non si intravede una canottiera, non un lembo di pelle fangosa. Tutto resta negli occhi di chi ha attraversato la Terra per tentare l’impossibile; tutto il resto, quello che si è mosso in superficie, è stato fin troppo visto. Il resto è una ferita individuale.
Una scelta narrativamente difficile da rendere, ma la miniserie ci riesce grazie a una scrittura attenta a sottrarre: una scrittura e una regia che soprattutto ai bordi del pozzo tolgono le parole e lavorano di sguardi, di cenni, di primi e PP piani. Di parole ne sono state dette fin troppe in diretta tv in quei giorni del 1981.
La regia riesce quasi a superare la membrana della quarta parete, quella membrana che apparentemente fu squarciata con le tante ore di diretta tv (ma che di fatto si trasformò in un muro invalicabile tra opportunità e decenza) servendosi sempre di PP e PPP e di camere a spalla e steadycam. Siamo tutti lì intorno al pozzo ancora una volta, ma questa volta siamo stati invitati. Non siamo più quel circo che si muove in superficie, ottimamente reso e che anche nella fiction riesce a stupire: sai di guardare una miniserie, ma continui a domandarti come nessuno abbia mai deciso di mettere ordine in quel caos. Mai. L’incredulità è la stessa, la speranza che si possa fare ancora qualcosa pure, insieme alla consapevolezza che si tratti di una missione impossibile: vuol dire che la fiction sta funzionando. E si lascia guardare per vedere come va a finire. Anche se lo sai già.
“Non incolpo nessuno”
C’è un altro aspetto nel quale la scrittura ha dato buona prova di sé, a mio avviso: riuscire a mantenere fede a quella che appare la ‘linea narrativa’ richiesta da Franca Rampi, perfettamente sintetizzata da una battuta nel finale, quel “Non incolpo nessuno!” che nella miniserie la Rampi proclama in una conferenza stampa per presentare l’eredità di Alfredino, il Centro Rampi, consapevole che i giornalisti siano lì solo per prenderle ancora qualche pezzetto di un figlio ingoiato da un pozzo scoperto.
Franca Rampi non ha mai dato la colpa a nessuno, ma ha denunciato un pessimo modo di operare: lo ha fatto anche a caldo, parlando col Presidente Pertini (qui un Massimo Dapporto che ha tre battute ma fa sentire tutto il peso di quell’arrivo a sorpresa nel giorno finale e l’impegno successivo). Eppure sarebbe stato semplice nella ricostruzione fictional dare colpe, disegnare cattivi, evidenziare ottusità.
In questo, invece, la miniserie riesce a mantenere un notevole equilibrio, riesce a portare sullo schermo la volontà di non dare colpe. Certo, in un certo senso i buoni più buoni sono gli speleologi – giovani, volontari, abnegati, preparati, disponibili – mentre certe imprudenze e certe impuntature dei Vigili del Fuoco li rendono ‘meno buoni’, ma mai davvero cattivi, con la Polizia generosa e intuitiva nel mezzo.
Nella cifra dell’equilibrio è, a mio avviso, esemplare la costruzione del personaggio del Comandante Elveno Pastorelli (magnificamente interpretato da Francesco Acquaroli): se ne riconoscono le testardaggini e una certa presunzione, ma si tengono nel suo ruolo di leader e nella sua consapevolezza di essere “lo Stato”. Con tutti i suoi limiti.
Meno equilibrata, invece, sembra la rappresentazione del ruolo della tv verso cui mi sembra ci sia una certa benevolenza: si calca ossessivamente sulla certezza del salvataggio come motivazione principale alla copertura informativa, anche in diretta; non si evidenzia il legame – certo stretto – tra la copertura tv e la marcia verso Vermicino, qui connessa quasi più alla stampa che alle edizioni straordinarie dei telegiornali. E poi si mostra solo la diretta del Tg2, senza far riferimento alla concorrenza interna del Tg1 (come a non voler entrare nelle vicende di mamma Rai, anche comprensibilmente). Ma per quanto resti (quasi) ai bordi di questa narrazione, il peggio di quella tv viene ben sintetizzato mostrando i due baratri in cui cade: la voce di Alfredino e la mamma messa a favore di telecamera. Restano la quintessenza di una copertura che perse i freni.
Alfredino: una storia – e una fiction – italiana, nel bene e nel male
La miniserie Alfredino è davvero una storia italiana, in tutti i sensi: riesce a rappresentare le luci e le ombre di un Paese e della sua gente. Da una parte c’è lo Stato disorganizzato, ottuso, pieno di sé, sempre in affanno, ma anche pronto ad aggirare le norme in cerca di un risultato; dall’altro gli italiani ‘pessima gente’, che si accalcano accanto al pozzo per esserci, per farsi vedere, mangiando panini e criticando la mamma di Alfredino per un cambio d’abito o per un ghiacciolo mangiato automaticamente alla 48esima ora di angoscia. Ma con loro ci sono anche gli italiani tutto cuore, pronti a morire per tentare di salvare un bambino.
Alla fine, però, non c’è nessun eroe, nessun colpevole, se non ‘per caso’. Alla fine intorno al pozzo si crea una squadra, quella squadra che poi troverà l’unità col lavoro del Centro Alfredino Rampi e con la Protezione Civile. Anche questa è una chiave narrativa che ha l’aria di essere stata richiesta espressamente e che è stata ottenuta in maniera organica. Se c’è una protagonista, e non per caso però, è Franca Rampi, che la sceneggiatura descrive chiaramente in due battute (“Voglio capire” all’inizio e il “Non incolpo nessuno” alla fine) e che vive in una credibile Anna Foglietta. Una donna che svetta su tutte le miserie e che nella fiction ritrova al suo fianco il marito Nando (un ottimo Luca Angeletti) che nella tradizione televisiva tende a scomparire e che qui ritrova invece il suo giusto spazio.
Luci ed ombre sono presenti anche nella fiction, dicevamo. Accanto a soluzioni di scrittura e di regia che abbiamo detto essere davvero notevoli per la loro capacità di mantenere la barra dritta in una storia che invece ha rappresentato la deriva del piccolo schermo, si notano anche ‘ingenuità’ tipiche da fiction italiana: una confezione altalenante, la pedanteria della linea narrativa degli speleologi che serve sì a spiegare quanto quei giorni a Vermicino abbiano inciso sulla vita delle persone ma su cui si indugia fin troppo, il personaggio della psicologa messa lì un po’ per caso, quasi a voler riequilibrare la quantità di uomini e donne. Quando poi c’è Franca che svetta su tutti e che alla fine sembra rivolgersi direttamente a noi perché nulla di questo accada mai più.
Ma poi c’è stato il Mottarone, un’altra storia italiana. E capiamo che forse della ‘storia italiana’, drammaticamente italiana, di Alfredino non abbiamo ancora capito molto sul piano mediatico. Su quello della prevenzione e dei soccorsi ci ha pensato, per fortuna, Franca Rampi con i suoi collaboratori. Chapeau.